Il Reddito di cittadinanza (Rdc), secondo lo stesso decreto legge che lo istituisce (4/2019), è una «misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro».
L’obiettivo esplicito è dunque quello di contrastare la povertà, di aiutare i più svantaggiati, coloro che più degli altri hanno bisogno dell’intervento pubblico, promuovendo il diritto all’occupazione.
L'introduzione di una misura di sostegno del reddito – o, per essere più precisi, di una rivisitazione ed estensione del reddito di inclusione (Rei) introdotto già nel 2017 – è certamente meritevole. Lo è innanzitutto perché affronta un problema grave che riguarda un numero elevato di famiglie, in particolare quelle con bambini. I dati Istat (relativi al rapporto “La povertà in Italia” del 26 giugno 2018) ci dicono infatti che in Italia le famiglie in povertà assoluta – ossia con un reddito così basso da non essere in grado di permettersi un paniere di beni e servizi essenziali – sono 1.778.000, in cui vivono 5.000.580 individui (un quarto minori).
Le misure di contrasto alla povertà sono certamente apprezzabili in un Paese come l’Italia, che non brilla per impegno nella lotta a questo problema sociale. Tuttavia, si deve rilevare che l’immagine della povertà e della disoccupazione alla base del Rdc è a dir poco frettolosa.
In primo luogo, la causa della povertà è considerata prioritariamente l’assenza di lavoro. Bisogna allora capire perché le persone si trovano in questa condizione. Chi non lavora può essere interessato a farlo e quindi disoccupato, oppure no e quindi inattivo. Il Rdc presuppone che tutti gli adulti che non studiano e non hanno carichi di cura né disabilità debbano dichiararsi immediatamente disponibili al lavoro. In altri termini, si vuole escludere che riceva l’assegno del Rdc qualcuno che non abbia voglia di lavorare. Ma fino a che punto la disoccupazione o l’inattività sono un problema di forza lavoro svogliata? Non ha un ruolo cruciale anche la scarsità della domanda di lavoro? A onor del vero, emerge una certa consapevolezza del fatto che le opportunità di occupazione non abbondino, ma questa mancanza è in qualche modo scaricata sui beneficiari. Il testo prevede infatti che si debba accettare almeno una di tre offerte di lavoro definite congrue: «nei primi dodici mesi di fruizione del beneficio è congrua un’offerta entro cento chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici». Questo significa che il decreto esprime consapevolezza del fatto che il mercato del lavoro locale può non essere in grado di accogliere la disponibilità dei disoccupati, ma sottolinea l’obbligatorietà dell’attività lavorativa a prescindere: i beneficiari devono accettare qualsiasi offerta. In questo modo è posta su di loro la maggior parte della responsabilità della questione disoccupazione, e sostanzialmente sono deresponsabilizzati gli altri attori del mercato del lavoro.
In secondo luogo, il lavoro è considerato una condizione sufficiente (oltre che necessaria) di uscita dallo stato di povertà. Ma non è sempre così. Ancora i dati Istat ci dicono che la povertà assoluta ha un’incidenza del 6% tra gli occupati, cioè un valore solo leggermente più basso dell’incidenza sulla popolazione in generale (8,4%). Le ragioni possono essere diverse, dai bassi salari, alla discontinuità lavorativa, nonché il tempo di lavoro ridotto (non necessariamente scelto). Per fare in modo che l’occupazione diventi veramente un’assicurazione contro la povertà bisognerebbe agire sulle condizioni del mercato del lavoro, ossia contrastare non solo la povertà da disoccupazione, ma anche quella da lavoro non sufficientemente remunerativo.
Il Rdc si presenta quindi come una cosiddetta misura di workfare, in quanto pone vincoli molto stringenti alla fruizione del beneficio, adottando severi criteri di condizionalità dell’aiuto e l’obbligo di attivazione. A dispetto del nome, la misura disegnata dal governo Lega-M5S non si configura come vero e proprio Reddito di cittadinanza (cioè incondizionato ed erogato a tutti i cittadini), ma semmai come reddito minimo, ossia come misura di integrazione al reddito che colma la distanza rispetto a una determinata soglia di povertà. La sua fruizione – in linea con la maggior parte degli orientamenti europei in materia di politica sociale – è legata al fatto che il beneficiario dimostri di “meritarselo”. E chi è che merita di essere aiutato? Chi soddisfa una serie di criteri di “meritevolezza”. Tra i più importanti – utilizzati tanto dall’opinione pubblica quanto dai policy maker − ci sono il controllo e la reciprocità: lo stato di bisogno non dev’essere “intenzionale” (come quando si rinuncia volontariamente a un’occupazione) e il beneficiario deve mostrare l’impegno a ricompensare l’aiuto ricevuto con qualcosa in cambio (lavoro o volontariato). Accanto a questi criteri, spesso se ne aggiungono altri due: l’entità del bisogno e l’identità sociale del beneficiario. In particolare quest’ultimo si palesa quando si giudica più meritevole di aiuto chi è percepito come “uno di noi”. Immigrati e persone ai margini della società (rom, senza fissa dimora ecc.) difficilmente sono percepiti come tali, non dalla maggioranza perlomeno. L’esclusione del Rdc degli stranieri residenti da meno di 10 anni sul territorio nazionale va incontro a questo criterio.
Ponendo questi limiti stringenti, la misura del Rdc va incontro a un ampio consenso da parte dell’opinione pubblica. I dati della European social survey, un’indagine sociologica europea comparata, mostrano che in Italia nel 2017 (sotto il governo Gentiloni) vi era una netta preferenza per quello che veniva raffigurato come reddito minimo (cioè l’odierno Rdc con obbligo di attivazione) rispetto al “reddito di base”, più simile a un vero Reddito di cittadinanza come definito sopra. Sottoposti entrambi a giudizio dei cittadini, il reddito minimo guadagnava il 67% dei consensi contro il 51% del reddito di base, reo agli occhi dell’opinione pubblica di violare proprio i criteri del controllo e della reciprocità.
L’introduzione del Rdc ripropone dunque un’annosa questione morale: la povertà è un problema a prescindere o lo è soltanto quando i poveri sono giudicati meritevoli dall’opinione pubblica? In un’Italia spazzata dal vento del populismo temiamo di conoscere la risposta. Ma alla politica si dovrebbe chiedere di affrontare il problema della povertà in tutte le sue sfaccettature (la povertà dei senza lavoro, la povertà nel lavoro, la povertà minorile) con gli strumenti più appropriati alle varie forme.
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