Presentato ufficialmente il 10 settembre scorso a Bruxelles, il Rapporto Draghi sul futuro della competitività europea opera una diagnosi impietosa dello stato dell’economia europea e delle prospettive di crescita. E questo soprattutto nel confronto con gli Stati Uniti.

L’Europa da tempo è caduta nella cosiddetta trappola delle medie tecnologie (per esempio, come il settore automobilistico) e ha perso invece la competizione con gli Stati Uniti nei settori di punta dell’innovazione (piattaforme digitali, intelligenza artificiale, microprocessori ecc.). Una delle ragioni è che le imprese europee spendono poco in ricerca e innovazione, e cioè 270 miliardi di euro in meno rispetto alle imprese statunitensi. In ogni caso, i primi tre investitori in ricerca e sviluppo europei sono le case automobilistiche, non le nuove imprese nel campo delle ultime tecnologie. Le aziende europee hanno una dimensione comparativamente modesta. Nella classifica delle imprese con capitalizzazione superiore ai 100 miliardi di euro non compaiono imprese europee costituite negli ultimi cinquant’anni. Le sei imprese statunitensi con una valutazione superiore a mille miliardi di euro sono state costituite invece in tempi relativamente recenti (le cosiddette Big Tech come Google, Meta, Amazon ecc.).

Anche nel settore bancario balza agli occhi il divario. Gli istituti di credito e finanziari europei hanno dimensioni molto più ridotte rispetto a quelli statunitensi e ciò diminuisce la loro capacità di finanziare i grandi investimenti che sarebbero invece necessari per migliorare la competitività. JP Morgan, che è la più grande banca statunitense, ha una capitalizzazione di mercato superiore a quella delle dieci maggiori banche europee messe insieme. La seconda e la terza banca statunitense sono più grandi di tutte le omologhe europee.

Tra le cause del lento declino in atto ormai da oltre vent’anni, il Rapporto pone in primo piano la frammentazione normativa, la iper regolazione e la farraginosità delle procedure

Tra le cause del lento declino in atto ormai da oltre vent’anni, il Rapporto pone in primo piano la frammentazione normativa, l’iperregolazione e la farraginosità delle procedure (cosiddetto red tape). Anzitutto, l’attuazione del mercato unico trova ostacoli nelle “barriere regolatorie” (regulatory barriers) dovute alle normative nazionali dei ventisette Stati membri disallineate, che accrescono notevolmente i costi delle imprese che vorrebbero espandersi al di fuori dei mercati nazionali. In particolare, il Rapporto lamenta il mancato completamento dell’Unione bancaria e dell’Unione dei mercati dei capitali, che è invece un obiettivo fondamentale per mobilitare risorse private nei settori economici di punta. E ciò tanto più in una situazione nella quale le finanze pubbliche di molti Stati membri, già fortemente indebitati, non sono in grado di finanziare gli investimenti necessari per promuovere la crescita.

È vero che nell’area euro, come risposta alla gravissima crisi finanziaria del 2011, un primo tassello dell’Unione bancaria è già stato attuato poiché la vigilanza bancaria è stata accentrata in capo alla Banca centrale europea. Mancano però, come sottolinea il Rapporto, tasselli fondamentali, tra i quali un sistema di assicurazione comune dei depositi che presuppone la disponibilità degli Stati membri di condividere i rischi bancari derivanti dalla crisi di istituti operanti in altri Stati membri (risk sharing). Per quanto riguarda la risoluzione delle crisi bancarie, l’autorità di risoluzione unica istituita a livello europeo non dispone di una garanzia finanziaria di ultima istanza e ciò complica la gestione delle crisi delle grandi banche sistemiche.

Secondo il Rapporto occorre dunque non solo armonizzare le normative nazionali, come per esempio quelle in materia di procedure fallimentari, ma anche accentrare i poteri di vigilanza e regolazione in capo all’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma), che oggi ha soltanto funzioni di coordinamento dei regolatori dei singoli Stati membri.

La frammentazione dei mercati per linee nazionali, dovuta a regimi differenziati, costituisce dunque un forte disincentivo per le banche a impegnarsi in operazioni transfrontaliere. Alcuni giorni fa UniCredit ha acquistato una quota del 4,49% delle azioni di Commerzbank messe in vendita dallo Stato tedesco in vista di una possibile acquisizione. Ma quest’ultima dovrà scontare nel valutare la convenienza dell’operazione anche le inefficienze dovute ad assetti normativi non omogenei.

Quanto alla iper regolazione, il Rapporto sottolinea che oltre 370 atti normativi regolano l’utilizzo delle tecnologie e delle reti digitali e ciò costituisce un ostacolo soprattutto per le imprese start-up nei settori più innovativi. I tempi di approvazione delle norme europee, dovuti ai tanti passaggi procedurali, sono troppo lunghi. Inoltre, l’applicazione troppo rigida del principio di precauzione al quale si ispirano molte norme europee può costituire un freno a innovazioni, per esempio nel campo dell’intelligenza artificiale, che potrebbero determinare rischi non prevedibili.

Secondo il Rapporto, l’Europa dovrebbe ridurre gli ambiti di intervento normativo, applicando in modo più rigoroso il principio di sussidiarietà, restituendo agli Stati membri molte materie.

Lo stock complessivo di norme è reso ancora più pesante perché gli Stati membri violano sistematicamente il divieto di gold plating, cioè di appesantirle ulteriormente in sede di recepimento, sotto la spinta di pressioni nazionali. Solo di recente, qualche legge italiana, come nel 2022 la legge di delega a riscrivere il Codice dei contratti pubblici, ha imposto il divieto in questione.

La semplificazione delle regole dovrebbe essere funzionale alla riduzione degli oneri amministrativi che gravano sulle imprese, in particolare su quelle piccole e medie

La semplificazione delle regole dovrebbe essere funzionale alla riduzione degli oneri amministrativi che gravano sulle imprese, sotto forma di documentazione da produrre nell’ambito dei procedimenti autorizzatori e di forme di rimborso delle spese. Un’attenzione particolare deve essere rivolta alle piccole e medie imprese, sulle quali gli oneri burocratici incidono in misura proporzionalmente maggiore. Secondo il Rapporto, particolarmente pesanti sono quelli imposti dalle normative sulla privacy, sui rifiuti e sugli imballaggi.

Occorre poi migliorare la cosiddetta capacità amministrativa degli apparati, dotandoli di risorse e di professionalità adeguate, in modo tale da contenere i tempi delle procedure. Il Rapporto segnala per esempio che, nel settore dell’energia nel quale l’Europa è fortemente svantaggiata, il rilascio dei permessi per i parchi eolici richiede fine a nove anni in alcuni Stati membri, mentre sono necessari tre o quattro anni per le autorizzazioni relative agli impianti solari.

Anche l’applicazione rigida delle regole in materia di concorrenza e di aiuti di Stato da parte della Commissione europea costituisce, secondo il Rapporto, un fattore che penalizza le imprese più innovative, per quanto esse siano necessarie a garantire parità di condizioni tra le imprese (level playing field). Il Rapporto sollecita un ripensamento nell’approccio rigorista della Commissione europea soprattutto in materia di controllo sulle concentrazioni. Occorre valutare non solo gli effetti dell’operazione sui prezzi, ma anche l’innovazione e gli assetti competitivi nel più lungo periodo. Si avverte forse un’eco del veto opposto nel 2019 dalla Commissione europea all’acquisizione di Alstom da parte di Siemens nel settore ferroviario, che avrebbe creato in questo settore un campione europeo in grado di competere a livello mondiale. I governi tedesco e francese avevano criticato la decisione che si era limitata a valutare l’impatto concorrenziale negativo sul mercato europeo, anziché globale.

In ogni caso, proprio nei giorni scorsi la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha definito il mandato della neocommissaria alla concorrenza, Teresa Ribera, nell’ottica di rivedere a fondo la prassi interpretativa in materia di concorrenza e di aiuti di Stato all’insegna di una maggior flessibilità.

In conclusione, il Rapporto Draghi contiene una miniera di dati e offre molte indicazioni operative. In assenza di uno scatto di reni da parte dei governi nazionali, che in questa fase sembrano ripiegati su sé stessi, rischia però di restare un libro dei sogni.