Chi conosce la situazione nella striscia di Gaza sapeva che il momento sarebbe arrivato, ma l’orrore cui stiamo assistendo, la brutalità dell’attacco terroristico compiuto da Hamas sabato 7 ottobre e la conseguente risposta di Israele sono al di là dell’immaginazione. Scrivo con il fiato sospeso per la sorte degli ostaggi in mano ad Hamas e della popolazione palestinese sotto le bombe, senza acqua, elettricità e soccorso medico, ora costretta a un'evacuazione impossibile.

Questo potrebbe essere il punto di non ritorno di un conflitto irrisolto e trascurato. Il rischio è che nessuno dei due popoli, i cui destini sono inesorabilmente legati dalla storia – anche a seguito di decisioni maturate in Europa – possa vedere realizzate le rispettive, legittime aspirazioni, di autodeterminazione da un lato, di sicurezza dall’altro.

L’esplosione di Gaza non può però essere circoscritta a un “problema Hamas”. Sarebbe ingenuo pensare che qualora Hamas scomparisse Israele non avrebbe più un “problema Palestina”. La vera posta in gioco di quanto sta avvenendo a Gaza è il destino della Palestina intera e in particolare della Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est. Gaza non può essere staccata, neanche nel discorso pubblico, dal resto del territorio palestinese occupato, di cui fa parte e continua a fare parte anche dopo la presa di potere di Hamas nel 2007, come è stato riconosciuto anche dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e dall’Assemblea Generale, dalla Corte Penale Internazionale e dal Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Scomode riflessioni si impongono sulla incapacità della politica e della diplomazia internazionale e sul modo in cui i media coprono il conflitto, trascurandone contesto e origini lontane

Scomode riflessioni si impongono in questo contesto sulla incapacità della politica e diplomazia internazionale, sull’isolamento a cui i palestinesi sono stati condannati – e sulle ragioni di tale isolamento – e sull’insoddisfacente modo in cui i media coprono il conflitto, trascurandone contesto e origini lontane. Mancano prospettive, anche culturali, per contrastare e superare l’estremismo, come ci ricorda Daniel Barenboim in un articolo appena pubblicato.

Ma occorre anche riflettere sul fallimento in questo contesto della giustizia internazionale, anche alla luce di quanto viene giustamente fatto a seguito dell’aggressione russa dell’Ucraina. Il contrasto è visibile nella forma di una impunità, concessa ormai da decenni, a fronte delle gravissime e perduranti violazioni del diritto internazionale da ambo le parti. Non sono gli strumenti del diritto a mancare. Ci sono principi e norme applicabili a questa situazione, ci sono decine di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, c’è un fondamentale parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia, massimo organo giudiziario dell’Onu, che nel 2004 (in occasione di una pronuncia sulle conseguenze giuridiche della costruzione del “muro”) ha tracciato chiare linee per bilanciare le legittime istanze di sicurezza di Israele e la tutela dei diritti umani della popolazione palestinese occupata.

Mancano prospettive, anche culturali, per contrastare e superare l’estremismo

Da allora tuttavia la situazione, lungi dall’essere riportata sulle linee tracciate dalla Corte, è solo peggiorata; proprio negli ultimi mesi, con il governo Netanyahu, abbiamo assistito a una accelerazione dell’annessione da parte di Israele dei territori occupati e del sistema posto a servizio di tale politica, al punto che si moltiplicano le voci autorevoli che sostengono si tratti di un sistema di apartheid (come già analizzato, tra gli altri, da Human Rights Watch e Amnesty International).

I rapporti delle organizzazioni indipendenti e degli Special Rapporteur dell’Onu succedutisi negli anni, da ultimo quelli della Rapporteur Francesca Albanese, sono netti in proposito. Ciò che manca tuttavia è l’accountability, il fare valere le responsabilità sul piano internazionale, il che, prima ancora che giuridico, è un problema politico. Già nel settembre del 2009, in occasione della presentazione del Rapporto della commissione da lui guidata, il giudice sudafricano Richard Goldstone avvertiva:

“Una cultura dell’impunità è esistita troppo a lungo nella regione. La mancanza di accertamento delle responsabilità per crimini di guerra e possibili crimini contro l’umanità ha raggiunto il suo punto di crisi; la perdurante mancanza di giustizia sta mettendo a repentaglio ogni speranza di riuscita di un processo di pace e sta rinforzando un clima di violenza” [United Nations Human Rights Council, 29.9.2009].

La commissione nominata dall’Onu all’indomani dell’operazione militare detta “piombo fuso” era volta a documentare e analizzare le violazioni del diritto internazionale prima facie commesse da entrambe le parti. Le conclusioni furono nel senso che

“ciò che è avvenuto in poco più di tre settimane a fine 2008, inizio 2009 [a Gaza] è stato un attacco deliberatamente sproporzionato organizzato per punire, umiliare e terrorizzare una popolazione civile, diminuire radicalmente la sua capacità economica sia di lavorare sia di provvedere a sé stessa, e di imporle con la forza un senso di sempre crescente dipendenza e vulnerabilità”.

Il dettagliatissimo rapporto documentava, da un lato, la commissione di decine di possibili crimini di guerra compiuti dalle forze israeliane in violazione di fondamentali principi del diritto umanitario, quali i principi di necessità, distinzione e proporzionalità risultanti in una elevatissima percentuale di vittime civili (circa 1.400 morti e oltre 5.000 feriti), dall’altro, il lancio di razzi da parte delle milizie di Gaza (Hamas e altri) verso il Sud di Israele che, in quanto attacchi indiscriminati, integravano possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La commissione affermò che il blocco di Gaza è illegale e può integrare un crimine contro l’umanità in quanto persecuzione della popolazione civile ("persecution"). Si raccomandava infine la trasmissione del rapporto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ed al Procuratore della Corte penale internazionale (Cpi).

Nel frattempo, abbiamo assistito ad altre esplosioni di violenza e all'uso massiccio della forza militare tra cui, solo per menzionare i momenti in cui i riflettori del mondo si sono accesi, nel 2012 e 2014 (l’operazione denominata “margine protettivo”, ove 2.251 palestinesi furono uccisi, di cui si stima 1.462 civili, e 11.231 feriti, di cui un terzo donne e bambini, come documentato dall’Onu). Nel 2018, in risposta alle manifestazioni di protesta della cosiddetta “grande marcia del ritorno” a Gaza, l’uso sproporzionato della forza sui manifestanti disarmati fece centinaia di vittime, come documentato dall’Onu. L’ultimo riflettore si accendeva a maggio del 2021. La violenza è però una realtà quotidiana e non si limita certo a Gaza, bensì si estende alla Cisgiordania occupata dove, sebbene non governi Hamas, l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele già ha causato quest’anno, secondo stime di organizzazioni indipendenti per i diritti umani, 174 morti (erano 192 nel 2022), di cui la maggior parte civili.

La Corte penale internazionale (Cpi) ha a lungo evitato di occuparsi della situazione, in un primo tempo a causa dell’incerto status della Palestina a livello internazionale, obiezione poi superata a seguito della risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu 67/19 del 29 novembre 2012, che ha elevato la Palestina a “Stato osservatore non membro”, aprendo così le porte alla ratifica dello Statuto della Corte da parte della Palestina (avvenuta nel gennaio 2015, con contestuale accettazione retroattiva di tale giurisdizione dal 2014). Dopo un lungo e travagliato percorso, la Procura della Cpi ha formalmente aperto un procedimento nel marzo 2021, ma non si è visto per il momento alcun passo concreto nelle indagini. Peraltro, sebbene Israele non abbia mai voluto ratificare lo Statuto e non sia quindi uno Stato-parte, la giurisdizione della Corte, grazie all’adesione della Palestina al trattato, include potenzialmente tutti i crimini di competenza della Corte commessi tanto dagli israeliani quanto dai palestinesi sul territorio. Il procuratore Karim Khan ha in questi giorni dichiarato che ritiene di avere giurisdizione sugli attentati compiuti da Hamas nel Sud di Israele.

Com’è auspicabile che i gravissimi crimini commessi da Hamas contro i civili israeliani siano prontamente oggetto dell’azione della Cpi e che i responsabili siano puniti, altrettanto va fatto rispetto alle responsabilità da parte israeliana

Com’è auspicabile che i gravissimi crimini commessi da Hamas contro i civili israeliani siano prontamente oggetto dell’azione della Cpi e che i responsabili siano puniti, altrettanto va fatto rispetto alle responsabilità da parte israeliana. Al contrario di quanto affermato nel 2018 dall’allora ministro della Difesa israeliano Lieberman, non è infatti giuridicamente sostenibile che “non esistono innocenti a Gaza”. Questa visione, che vediamo ripetuta e amplificata in questi giorni da esponenti del governo Netanyahu, potrebbe condurre secondo alcuni esperti, anche israeliani, a una possibile integrazione del crimine di genocidio. Peraltro, anche rispetto alle recenti azioni di Hamas non manca chi stia invocando la nozione di genocidio