L’attacco di Jair Bolsonaro agli studi umanistici ha scatenato veementi reazioni: in Brasile e nella comunità accademica mondiale. È l’intento di un governo “fascista”, s’è detto e ripetuto, di conculcare “il libero pensiero” in nome della “tecnocrazia”, del famigerato “neoliberalismo”. Lasciamo da parte i termini “fascista” e “neoliberale”, usati sempre a sproposito: la protesta ha ragioni da vendere. E le ha perché il governo brasiliano ha preteso di imporre un ukaze ideologico, di scatenare una caccia alle streghe per distruggere “il nemico”, epurare la scuola, scomunicare gli eretici. Così fanno i populismi: mossi da furia redentiva, dalla pretesa di incarnare “Deus acima de todos”, il popolo eletto, riducono la complessità del mondo a due opzioni: noi e loro, bene e male, verità ed errore. Eccoli così in nome della pace scatenare la guerra, dell’amore l’odio. Hanno fatto bene, nonostante i loro argomenti spesso puerili e inconsistenti, i giovani a scendere in piazza: la politica non si fa così, non è così che funziona la democrazia.
Ma l’episodio è istruttivo, induce a considerazioni più generali: sulla natura del populismo, sui suoi effetti, sulla sua relazione con la tecnocrazia, sulle sue affinità elettive. La prima cosa che salta agli occhi è che invocando assoluti morali – Dio, il popolo – o scientifici – l’efficienza, la produzione – pretende di imporre al dibattito politico una verità prestabilita, un assioma indiscutibile; trasforma quello che dovrebbe essere un dibattito razionale tra una molteplicità di attori in una guerra di religione tra chi possiede la verità e chi la nega. Tale è il primo, evidente effetto del populismo; anzi, è il populismo stesso. Del tema in sé, infatti, non c’è motivo per non parlare in modo pacato e razionale: in Europa lo si fa da decenni; e da anni è nota e discussa la tendenza dei giovani dei Paesi latini a prediligere gli studi umanistici più dei giovani dei Paesi nordici, più votati agli studi tecnico scientifici. Oggi molti Paesi dibattono su come incentivare più ragazze a scegliere le scienze dure. Ciò significa che un giovane danese o tedesco ha meno spirito critico di un brasiliano o uno spagnolo di chi ha studiato sociologia o filosofia? Ho i miei dubbi. Ma il punto è: in democrazia si parla, si dibatte, si espongono criteri e argomenti; ma le posizioni non sono mai due, sono tante. La decisione finale premierà chi ha ottenuto più consensi, chi è stato più convincente, o sarà il compromesso tra diversi apporti. Bolsonaro s’è invece comportato da quel che è: un elefante tra porcellane. Per fortuna in Brasile si può manifestare, c’è stampa libera, c’è un Congresso: altro che fascismo! Qualcosa si è già dovuto rimangiare.
Tale riflessione ne impone un’altra: cosa accomuna populismo e tecnocrazia? Per molti, sono i poli opposti del nostro mondo: il populismo sarebbe l’assolutizzazione della politica, la politicizzazione di ogni singolo aspetto della vita pubblica; la tecnocrazia, all’inverso, l’annullamento della politica in nome della scienza e delle sue ferree leggi. È così? Per nulla: tali termini e concetti sono in realtà gemelli diversi, condividono tratti genetici fondamentali. Il più evidente è il rifiuto della mediazione politica, tipica delle democrazie liberali: popolo o scienza conferiscono al potere un’autorità assoluta e indiscussa che nessuna istituzione intermedia ha il diritto di limitare o contestare; come tali, tanto il potere populista quanto il potere tecnocratico pretendono di poggiare su un presupposto morale anteriore al patto politico: la sovranità del popolo, la verità della scienza; si ritengono un tutto che trascende le parti. Da ciò la loro pulsione antipolitica: la politica, intesa come il terreno neutrale dove i diversi si confrontano, come arena le cui regole e procedure assicurano pari dignità e libertà a tutti, è per essi un indebito intralcio alla affermazione della verità, della volontà generale, dell’assoluto morale. Come tali, sono entrambi nemici della democrazia liberale, che ha proprio nella sua natura procedurale e nel rifiuto di assoluti morali o scientifici a priori il suo fondamento.
Tutto ciò suonerà astratto, astruso, campato per aria; meglio spiegarlo a modo comparativo, comparando Bolsonaro al suo opposto, o presunto tale: il castrismo. Ebbene, nessun regime come quello castrista, un populismo reale, ha adottato misure assimilabili a quelle che oggi intende imporre il governo di Bolsonaro in nome della tecnocrazia: quante affinità tra un populismo tecnocratico e una tecnocrazia populista! Curioso? Casuale? Bizzarro? Logico! Entrambi rifuggono la politica reclamando una verità a priori: la scuola borghese, diceva il vecchio Fidel, dà “mille spiegazioni, cioè nessuna”; quella cubana deve insegnare “la spiegazione vera” di tutti i problemi.
Poiché nessuna democrazia l’arginava e gli intellettuali oggi scandalizzati l’applaudivano adoranti, Fidel superò di molto Bolsonaro: il sistema scolastico, disse appena giunto al potere, va cambiato “del tutto”: servono tecnici, non umanisti. E così fece: impose ai cubani gli studi universitari che “la patria” reclamava; non è che i cubani abbiano più vocazione di altri per la medicina o le biotecnologie: è che intere generazioni furono indotte a mangiare quella minestra o saltare la finestra. Le scienze umane? A Fidel non interessarono mai, se non come strumento di catechesi ideologica: le trascurò, le disincentivò, le represse. Come per Bolsonaro, anche per lui la parte doveva subordinarsi al tutto, l’individuo alla collettività, la pluralità all’unanimità. Non si può vivere por la libre, diceva; “bisogna essere qualcosa di qualcosa”. Il fine? “Creare il produttore”; dodici gradi di scuola servivano a “sapere utilizzare le macchine”, non a seminare grilli per la testa: Bolsonaro non saprebbe dirlo meglio. Come Fidel, spera che “il governo delle persone sarà un giorno soppiantato dall’amministrazione delle cose”; Engels dixit; addio alla politica, addio alla democrazia!
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