Mi trovo a Messina mentre nel resto d’Italia è da poco ricominciato il dibattito sul Ponte sullo Stretto. In questa città sono nato, cresciuto e torno volentieri da quando, alcuni anni fa, mi sono trasferito a Roma. Seguito da qui il dibattito ha un sapore particolare, e non perché la gente sia particolarmente coinvolta. Sono anni, infatti, che discussioni come queste avvengono altrove. Soprattutto, l’impressione è che sia solo un altro tra i miti che circolano da queste parti.
A queste latitudini, il dibattito sul Ponte è particolare a causa della strana combinazione tra geografia e mitologia. Al riguardo si è già detto molto (impossibile non citare Horcynus Orca, il romanzo dal respiro epico di Stefano D’Arrigo, incentrato sul tormentato ritorno a casa di un giovane marinaio siciliano nel secondo Dopoguerra), ma c’è una mitologia del Ponte che resta afona: più sperimentata che raccontata, cede il passo alla lunga storia di idee, annunci e progetti di collegamento stabile tra le due sponde che ha visto protagonisti quasi tutti i governi dell’epoca recente. Questa mitologia origina da una storia che non è solo di ingegneria, ma di politica, di cultura, perfino di religione. Di questa storia l’ingegneria non è che un capitolo, utile a dipingere nella sua complessità l’intero Mezzogiorno d’Italia. Il quale è ancora, in una percezione nazionale, una palla al piede quanto un’occasione mancata invece che la cartina di tornasole di un Paese che ha aggirato qualsiasi progettazione unitaria e così la possibilità di restituire ogni realtà a una maturità nazionale.
Messina, come tutto il Meridione, è luogo di contraddizione. È dove ho imparato a diffidare della retorica che esalta questo sole, questo mare e questo cibo. In questa città un paradosso vuole che venga addirittura bandita la bellezza. Chiunque qui può parlare della negazione di alcuni importanti tratti di costa, della tolleranza nei confronti di opinabili progetti urbanistici, dei silenzi su ciò che realmente produrrebbe sviluppo. C’è bellezza e bellezza. Anche per questo non alimento la retorica su quanto sia bella Roma (su cui a mio parere ci sarebbero non poche analogie).
L’ideologia del Ponte da realizzare individua in Messina la coincidenza tra il luogo e il momento. Proprio ciò che manca diventa uno spazio vuoto da colmare in cui il Ponte non è che l’opera proporzionata a ciò che non c’è. Ciò che manca diventa la misura di ciò che deve esserci
Ma l’ideologia del Ponte da realizzare individua da queste parti la coincidenza tra il luogo e il momento. Proprio ciò che manca diventa uno spazio vuoto da colmare in cui il Ponte non è che l’opera proporzionata a ciò che non c’è. Ciò che manca diventa la misura di ciò che deve esserci. In effetti è un’ideologia del riscatto: quasi che un’opera faraonica potesse di colpo spazzare una congiuntura che negli anni ha nutrito se stessa e ha prodotto cultura. Nel Ponte, Messina diventa l’idealtipo (per cui è a suo modo interessante un testo di Massimo La Torre) di una regione più vasta che è certamente la Sicilia, ma è anche il Sud Italia. Proprio il Ponte riconferma anziché smentire quello che Giuseppe Galasso definiva «dualismo italiano»: una situazione divenuta endemica, che non è superabile mediante gli strumenti di una disciplina sola. Al Sud Italia non serve un progetto, ma la capacità di progettare: in modo comunitario, democratico, perché la comunità non sia solo un risultato biologico (come la famiglia) ma anche politico.
Infatti, spesso sembra che la progettualità meridionale consista in iniziative individuali o che attecchiscono altrove. Si riavvera continuamente il mito messinese che racchiude l’individualità e l’esodo, quello di Colapesce (una versione del quale è stata trascritta anche da Italo Calvino, in Fiabe italiane), che racconta di un giovane abile in mare al punto da scomodare Federico II, per il quale si tuffò più volte decidendo infine di sostituirsi a una delle tre colonne, segnata dal tempo, su cui la Sicilia poggerebbe. Non è azzardato chiedersi se il Ponte non dica lo stesso. Perché quell’opera è per se stessa il simbolo di una direzione da prendere più che un invito a restare. E i messinesi sanno che cosa significhi essere città di passaggio: non solo per gli spostamenti regionali o nazionali per cui Messina è già ponte, ma soprattutto per chi a Messina è nato e si scontra con l’impressione che possa accadere solo questo, secondo una lettura deterministica del proprio dato biografico.
Il Ponte potrebbe perfino rappresentare l’ennesimo esempio di trickle-down economics: come se realizzarlo creasse un circolo virtuoso, infine risolutivo di tutti i problemi della città o dell’intero Meridione
Non è una contrapposizione morale tra chi parte e chi resta. È piuttosto e molto più spesso una questione strutturale: così non fosse, avrebbero ragione coloro i quali diffondono la narrazione che il Sud sia indietro unicamente per colpe proprie (anche su questo si è soffermato, di recente, Gianfranco Viesti sul numero 1/2021 di questa rivista), mentre andrebbe detto che davanti alle tendenze internazionali l’Italia continua ad aggirare qualsiasi politica organica. In questo senso il Ponte è perfino l’ennesimo esempio di trickle-down economics: come se realizzarlo creasse un circolo virtuoso, infine risolutivo di tutti i problemi della città se non addirittura del Meridione.
Eppure rimane valida l’analisi di alcuni anni fa di Antonio Tamburrino, con cui si sottolineava l’evidente sproporzione tra l’offerta e la domanda (basata sulla rilevazione degli attuali volumi di traffico, ma anche su un realistico aumento degli stessi), il pesante impatto ambientale (per di più in un’area pregiata) e il forte condizionamento urbanistico (che non consentirebbe nemmeno di giungere a un’effettiva conurbazione di Messina e Reggio Calabria) del Ponte previsto dalla società costituita per progettarlo e realizzarlo.
Ma quella del Ponte, come detto, non è una storia sola. È invece convergenza di storie, sia personali sia collettive, che raffigura un sistema, una rete in cui ogni elemento è potenzialmente anche l’altro, che si tratti di storia, cultura, religione o politica. Parlare di Ponte significa per questo rievocare i pregiudizi sul Sud che lo ridurrebbero a un composto omogeneo e addirittura dogmatico: ignari che i sistemi, per sopravvivere, devono tollerare gli strappi (dai movimenti «No Ponte» ai rivoluzionari della Sicilia di ogni tempo). Il Ponte è in questo quadro un modello riuscito di ricercata finzione, in cui ciò che va in scena non è il riscatto ma la replica, che alimenta il genio o l’iniziativa ma sfianca gli autori. Il mito del Ponte è quello di chi guarda lo Stretto e non vede l’ignoto, ma la certezza di una terra che conosce e non è irraggiungibile. È il mito di chi parte senza odio e senza amore o con entrambi. Nella prospettiva di una città che ha la pretesa di appartenere a un braccio di mare (nonostante la geografia dica il contrario), niente può essere stabile perché tutto è già mobile.
Il rumore del Ponte si è fatto insistente nel nostro Paese. Nel romanzo forse più riuscito di Bruce Marshall, A ogni uomo un soldo, il reverendo Gaston si dice convinto che il rumore che si sente non ammazzi. È un detto vero, ma la vita contempla eccezioni. Basterebbe ripercorrere ogni stagione e ogni episodio di questa storia complessa per provare a capire se anche stavolta le vittime non ci siano state davvero.
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