Riuscirà il Piano di rilancio (Pnrr) a determinare una ripresa del processo di sviluppo nel Mezzogiorno, e in generale nelle regioni (anche dell’Italia centrale) che nell’ultimo ventennio hanno avuto maggiori difficoltà? La domanda è cruciale: per il rilancio dell’intera Italia è essenziale il contributo di tutti i suoi territori, l’utilizzo di tutte le risorse disponibili; fenomeni di crescita nelle aree più forti non si diffondono spontaneamente e non sono sufficienti a garantire all’intero Paese un futuro diverso dal triste inizio del XXI secolo che abbiamo sinora sperimentato. Al momento, l’unica risposta possibile a questa fondamentale domanda è: forse.
Per capirlo è bene ricordare, in generale, che la discussione intorno al Piano di rilancio è piuttosto modesta. Circostanza molto negativa, alla luce tanto della sua importanza quanto del fatto, come si dirà in conclusione, che le modalità del suo processo di attuazione saranno decisive per determinarne gli effetti. Ancor più, del fatto che il governo Draghi ha lavorato al Piano senza alcun confronto con l’esterno. Il Parlamento ha discusso per due mesi e mezzo sul testo inviato dal governo Conte e poi si è trovato a dover approvare la versione finale in poche ore, senza avere neanche il tempo di leggerla; il governo ha poi inviato a Bruxelles una versione ancora lievemente modificata rispetto a quella trasmessa alle Camere, corredata con un’appendice documentale tanto vasta (oltre duemila pagine) quanto complessa e disomogenea, sostanzialmente illeggibile. Le forze economico-sociali e le ricche e attente rappresentanze associative (fra le altre, particolarmente attivo il Forum Disuguaglianze e Diversità, che aveva predisposto un articolato documento) sono state ignorate, con una sensibile differenza con ciò che è avvenuto in altri Paesi, a cominciare dal Portogallo. Forte della sua vastissima maggioranza parlamentare, il governo sta ora procedendo ai primi interventi attuativi. Sembra prevalere, nella discussione pubblica, una totale delega all’esecutivo, un’aprioristica fiducia nelle sue capacità tecniche. Una retorica del rilancio grazie alle «mani giuste». Un clima non positivo: come si proverà ad argomentare, la migliore attuazione, i più positivi impatti del Piano potranno venire da una sua continua e attenta discussione, da una attuazione trasparente e partecipata, da una profonda condivisione non di un generico «ce la faremo» ma degli specifici obiettivi delle missioni.
Il Pnrr contiene interventi che certamente produrranno effetti positivi, tuttavia essi mirano più a una modernizzazione dell’Italia che a una sua trasformazione e alla rimozione dei vincoli strutturali alla sua crescitaIl Pnrr, a una prima analisi d’insieme, appare un documento che contiene moltissimi interventi assai utili e condivisibili, e che certamente produrranno effetti positivi; tuttavia essi paiono mirare più a una modernizzazione dell’Italia che a una sua trasformazione e alla rimozione dei vincoli strutturali alla sua crescita; ispirato a una grande fiducia, una volta compiuta questa modernizzazione, nella capacità delle forze di mercato di determinare uno strutturale aumento della produttività e dell’occupazione. In quali aspetti il Mezzogiorno del 2026 grazie al Pnrr sarà diverso da quello attuale e dunque in grado di procedere assai più speditamente sulla via dello sviluppo? Impossibile avere una risposta in termini precisi e non solo generici dal Piano. Molti interventi del Pnrr saranno certamente utili per il Sud: ma saranno in grado di trasformarlo e rilanciarne lo sviluppo?
Si confida molto sulla dimensione quantitativa degli interventi: il Piano alloca nell’insieme circa 82 miliardi al Sud. Una cifra cospicua, specie in confronto alle tendenze degli ultimi anni (per quanto assai inferiore a quella che sarebbe scaturita applicando i criteri europei di riparto fra Paesi al riparto interno fra territori). La ministra Carfagna è molto fiduciosa che ciò produrrà un forte aumento della crescita; anche perché queste risorse si sommeranno agli altri interventi, europei e nazionali, per la coesione territoriale. Considerazione giusta; eppure soggetta nell’insieme alle sensibili e non banali criticità che li hanno caratterizzati negli ultimi due decenni (cui sono dedicati un paio di capitoli analitici di un recente volume) e che occorre vengano corrette da un forte indirizzo politico: come dimenticare il grande definanziamento del Fondo sviluppo e coesione 2007-2013, per circa 20 miliardi, operato nel 2008-2010 dal ministro Tremonti, o la circostanza che solo nel 2018 fu avviata dal governo Gentiloni la primissima programmazione dei fondi 2014-2020, dopo l’inazione dell’esecutivo precedente? Alla luce di quegli eventi, delle trasformazioni indotte dal Covid-19 e della stessa esistenza del Pnrr appare ad esempio cruciale che i Fondi strutturali 2021-2027 siano programmati con obiettivi e modalità completamente diversi da quelli del passato (ad esempio riguardo alla frammentazione degli interventi, anche alla luce delle caratteristiche del Pnrr di cui si dirà fra un attimo): ma sul tema non vi è alcuna discussione.
Ma quelli del Pnrr sono tutti investimenti nuovi, aggiuntivi? Anche a questa cruciale domanda non vi è precisa risposta. Nel Piano, come si legge a pagina 247, sono infatti inclusi 69,1 miliardi di «progetti esistenti» per i quali vengono attivati prestiti Ue: ma non è nota (a differenza di quanto parzialmente avveniva nel testo approvato dal governo Conte: si veda ad es. la p. 22) la loro composizione. Quanti degli 82 miliardi rifinanziano al Sud progetti già finanziati? Quest’informazione manca.
L’aspetto più significativo è che gli 82 miliardi sono un «totale in cerca di addendi». Non è infatti disponibile nel Pnrr, né è possibile ricavarla, una ricostruzione degli interventi inclusi in tale cifra. Lo stesso peso percentuale degli interventi nel Mezzogiorno nelle singole missioni indicato in un documento del ministero non è incluso nella versione trasmessa a Bruxelles. Questa circostanza è ancora più rilevante tenendo conto che il Piano si compone di ben 133 linee di investimento che si traducono, stando a una ricostruzione di Intesa-San Paolo, in 930 interventi. Il livello di approfondimento, ad esempio in chiave di allocazione territoriale, di ciascuno di essi è disomogeneo; e le appendici a ogni missione che danno conto dell’impatto sulle priorità trasversali del Piano, fra cui quella territoriale, sono assai generiche. Grazie anche allo splendido lavoro dei Servizi studi di Camera e Senato (che include l’analisi delle oltre duemila pagine aggiuntive di cui si è detto) è possibile verificare che solo in pochi casi sono individuati con precisione i progetti che si realizzeranno al Sud (ad esempio le Zone economiche speciali o alcuni interventi ferroviari oppure alcune misure nell’ambito scolastico). Mancando queste informazioni, mancano gli specifici target che il Piano mira a raggiungere nei diversi ambiti di intervento: quanti treni correranno al Sud nel 2026? Quanti bambini andranno all’asilo nido? E questo spiega l’impossibilità di ricostruire una «visione» più precisa del Sud al 2026 di cui si è detto.
Il Piano prevede l’allocazione delle risorse per bandi, nei confronti delle imprese o delle Amministrazioni pubbliche, ma non specifica quasi mai i criteri che questi bandi seguirannoMa se non ci sono i progetti, come funziona il Pnrr? In molti ambiti il Piano prevede l’allocazione delle risorse per bandi, nei confronti delle imprese o più spesso delle Amministrazioni pubbliche. Ma – punto cruciale - non specifica quasi mai i criteri che questi bandi seguiranno; né precisa (tranne che in alcune eccezioni, come nella missione 6, in cui diversi interventi sono disegnati con un rapporto fisso con la popolazione residente) l’allocazione territoriale che ne risulterà. È possibile ritenere ad esempio che le due maggiori misure di contributo agli investimenti privati (per le imprese la M1C2 1.1 «Transizione 4.0» con 13,97 miliardi e per l’edilizia, M2C3 1.1 «Ecobonus» per 13,95 miliardi) saranno allocati massicciamente, come già avvenuto e sta avvenendo, nelle aree del Paese a maggiore densità imprenditoriale e ricchezza immobiliare. Criteri e chiavi di riparto sono assenti anche nelle misure di infrastrutturazione sociale, per le quali lo stesso Piano riconosce le grandi disparità esistenti.
Ma come saranno costruiti i bandi per questi come per gli altri investimenti pubblici? È evidente che nella loro redazione saranno implicitamente operate scelte politiche di grande rilevanza. L’esperienza italiana dell’ultimo decennio (analizzata piuttosto nel dettaglio in alcuni capitoli di un recente volume) lo mostra chiaramente: grandi scelte sono state compiute attraverso normative secondarie; e spesso sono state mascherate da adempimenti tecnici dovuti. Un esempio per capire meglio: nella seconda componente della missione 4 (che vale oltre 11 miliardi) si mira a finanziare una pluralità di soggetti di interfaccia fra ricerca e imprese, e si sottolinea l’importanza della partecipazione dei soggetti privati: ma se la partecipazione delle imprese esistenti ai progetti che concorreranno sarà ritenuto un «titolo di merito» è evidente che gli investimenti si concentreranno laddove il tessuto imprenditoriale è già più denso. In generale l’allocazione competitiva delle risorse fra le amministrazioni comunali metterà in competizione soggetti con dotazioni di personale, capacità amministrative e tecniche ben differenti e un parco di progetti già cantierabili molto diversi; con reti di strutture e servizi a differente sviluppo, ad esempio per la mobilità: ed è molto più facile completare reti esistenti che disegnarne di nuove. In questi casi «premiare il merito» sarebbe una scelta politica esplicita: non a caso siamo il Paese che ha ripetutamente allocato le risorse per nuovi asili nido con criteri che premiavano le città in cui erano già più presenti. E che poi, semplicemente è abituato a liquidare la cosa dicendo: per il Sud abbiamo messo a disposizione tanti soldi, ma non sono riusciti a spenderli (problema serio, ma non comoda spiegazione di tutto).
Ciò apre uno scenario di grande interesse, già opportunamente sottolineato dal Forum DD. L’impatto del Piano, e non solo per quanto riguarda gli aspetti territoriali, dipenderà moltissimo dalla sua attuazione. Non solo, come è ovvio e assai importante, per le regole di semplificazione e per le capacità amministrativa (che al momento è certamente assai insufficiente) di avviare opere e interventi e quindi di spendere; questioni di cui opportunamente si discute. Ma anche perché nella sua attuazione saranno compiute scelte politiche rilevanti. Sarebbe quindi opportuno un clima diverso da quello accennato in apertura: con meno aprioristica fede nei tecnici e un maggiore, e più aperto, confronto fra le forze politiche e un coinvolgimento assai più pregnante delle rappresentanze economico-sociali, e in generale delle associazioni di cittadinanza. Sarà certamente indispensabile battersi per meccanismi di trasparenza in tutti i passaggi decisionali, e di monitoraggio in tutti gli interventi, che consentano di conoscere e per quanto possibile influenzare queste scelte. Un processo democratico di condivisione e attuazione del Piano non è un optional ma una condizione necessaria per il suo successo.
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