La polarizzazione di questa campagna elettorale su temi estremi quali fascismo/anti-fascismo, razzismo/anti-razzismo ecc. rischia di mettere in secondo piano ciò che dovrebbe invece essere di interesse per porzioni molto vaste della popolazione.

Un sondaggio pubblicato nei giorni scorsi dal «Corriere della Sera» ha offerto uno spaccato dell’Italia al voto per certi versi sorprendente. Non solo confermando l’idea che gli anziani e i pensionati hanno una maggiore propensione a votare per il Pd, ma portando alla nostra attenzione l’egemonia del M5S su tutte le categorie di intervistati, tranne, appunto, quella dei pensionati.

C’è un dato, poi, che lascia attoniti se si riesumano categorie ultimamente desuete. Il 40,6% degli operai e il 28,9% dei disoccupati dichiara di voler votare per il M5S, contro il 13,6% e il 18,3% a favore del Pd. La tentazione di derubricare questa tendenza, che ormai sembra essersi consolidata, al mero populismo è certamente forte. Ma non può essere, questa, tutta la storia. Anche il populismo ha un suo carattere di razionalità.

L’Italia è un Paese bloccato, si dice, ma spesso a questa espressione si associa il basso tasso di crescita del Pil. Viceversa, l’Italia appare come un Paese bloccato anche perché vittima di una trappola – come quella che Alan Krueger, professore di economia a Princeton e consigliere di Obama, suggerì attraverso quella che chiamò la “curva del Grande Gatsby”, ossia una relazione positiva tra elasticità intergenerazionale del reddito e diseguaglianza nella distribuzione del reddito stesso. In altri termini, i Paesi in cui il reddito personale è in buona parte ereditato dai propri genitori sono anche i Paesi con maggiori diseguaglianze sociali.

Dai dati a oggi disponibili, Italia, Regno Unito e Stati Uniti sono i Paesi che più di altri si distinguono per un’elevata diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e una forte persistenza del reddito tra generazioni: nulla sembra mutare nel corso dei decenni in termini di benessere delle famiglie. Chi è nato ricco continua a essere ricco e chi è povero continua a essere povero: il cosiddetto ascensore sociale sembra essersi bloccato.

In un simile contesto socio-economico, appare evidente e fors’anche ovvio che categorie sociali quali i disoccupati o gli operai rivolgano la loro attenzione e le loro intenzioni di voto verso un’offerta politica che, almeno apparentemente, sembra essere più sensibile alle legittime istanze di progresso sociale.

Il populismo trova terreno fertile nei “luoghi dimenticati”, come anche tra le classi dimenticate, e l’antidoto non può essere un élitismo culturale in cui la scelta di un gruppo consistente di elettori viene classificata come frutto di scelte inopinate, “di pancia”. Le innovazioni introdotte nella scorsa legislatura hanno ridotto l’indice di Gini ma di solo 0,3 punti, troppo poco in un’epoca in cui l’attenzione verso le diseguaglianze è molto alta. È dunque necessario agire sui “luoghi dimenticati”, ossia sui territori più deboli e ove la persistenza intergenerazionale del reddito è più alta, come sulle periferie, che vanno legate alle città in maniera solida, attraverso la fornitura di servizi di alta qualità. Riformare gli ordini professionali è utile, ma rischia di essere un’arma spuntata se non si garantisce un’effettiva eguaglianza nell’accesso all’istruzione universitaria di qualità ovunque nel Paese.

Il Pd si trova dinanzi a una grande scommessa: conciliare i vincoli di bilancio e normativi di carattere comunitario con la legittima domanda di politiche che vadano nella direzione di una maggiore redistribuzione del reddito e, soprattutto, di prospettive di crescita individuale. Fare affidamento sulla presunta superiorità intellettuale non sembra una strategia vincente per affrontare chi propone, invece, un futuro roseo per le classi più in difficoltà. E, d’altro canto, i pochi temi di un programma in costruzione ad oggi trapelati non sembrano andare in questa direzione. La liberalizzazione dei servizi avrà un senso se si partirà dal notariato e non dai tassisti, la contrattazione salariale territoriale avrà un senso se si partirà dall’incremento spazialmente differenziato della produttività e della qualità della vita.

 

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