La narrazione dei fatti di cronaca delle ultime settimane in merito ai migranti presenta una polarizzazione tra un “noi” e un “loro”. La separazione passa attraverso categorie di pretesa oggettività come la nazionalità, ma anche al concetto più ambiguo e pericoloso di identità. L’insistenza su questa contrapposizione va a toccare la pancia delle persone, usando e alimentando la percezione, spesso fallace, del rischio e della paura. Ogni giorno leggiamo di barricate, presidi, vedette: il “noi” contrasta il “loro” arrivo. In questo clima, si è arenato l’iter della legge sullo ius soli: “loro” (che sono nati e cresciuti qui) diventerebbero “noi”.
Questa categorizzazione si fonda sulla necessaria esclusione dell’empatia per l’altro, che viene allontanato dalla nostra percezione, da qualsiasi possibile immedesimazione. La crisi dei rifugiati viene descritta come un assedio di persone senza volto, una massa indistinta di disperati (neppure i principali oppositori possono negare che si tratti di persone mosse dalla disperazione), le cui vicende particolari sono raccolte in narrazioni standardizzate e generalizzate.
La stessa definizione collettiva di “migranti” genera questa comprensione superficiale o, peggio, evocativa della paura: migrano stagionalmente gli uccelli, migravano i barbari nell’antichità. Progressivamente abbiamo smesso di guardare davvero queste persone: i media snocciolano cifre, le immagini proposte degli sbarchi si assomigliano tutte. Un processo di astrazione e generalizzazione che crea indifferenza.
Per il filosofo Emmanuel Lévinas è invece proprio nel volto dell’altro che inizia la relazione e la conoscenza. Con lo sguardo rivolto al volto dell’altro si innesca la decostruzione della paura dell’idea preconcetta e pregiudiziale dell’altro.
“Alec, people will listen to you. You’re famous”. Un video con il noto attore Alec Baldwin accoglie i visitatori nel padiglione del Sudafrica alla 57. Biennale d’Arte di Venezia. Si tratta di una scelta in sé già abbastanza straniante per catturare lo sguardo dei visitatori dell’ampia mostra: Hollywood non ha bisogno dell’arte contemporanea per farsi conoscere. Allora perché l’artista Candice Breitz ha coinvolto nel suo lavoro Love Story (2016) Baldwin e la collega Julianne Moore? Forse basta questo per far fermare il pubblico in questa sala, che non solo si presenta gremita, ma lo rimane per un tempo stranamente lungo. Sullo sfondo verde dello schermo si stagliano le figure dei due noti attori, vestiti di nero, mentre raccontano in prima persona vicende di discriminazione, violenza, fuga, paura, spaesamento. La camera è fissa sui loro volti, sugli occhi lucidi o sfuggenti, sulle labbra che vibrano per l’emozione del racconto, sulle mani che si muovono nervosamente.
Il pubblico viene coinvolto dalle loro parole, addirittura c’è chi si commuove, chi sorride per un particolare, chi piange. Il filo del racconto tuttavia non è uno solo, pian piano si comprende che sono storie diverse a dipanarsi e intrecciarsi nel montaggio del filmato. Solo distaccandosi dall’emozione del racconto attoriale, il visitatore inizia ad accorgersi dei dettagli: narrando una vicenda Julianne Moore tocca un bracciale che ha al polso, nel quadro successivo il bracciale scompare e lascia il posto a un anello. Baldwin in un caso porta degli occhiali scuri, in un altro una piccola spilla.
È nella sala successiva che Candice Breitz svela a chi appartengono le storie e quegli effetti personali: sei schermi proiettano altrettante interviste registrate nel 2015 a Berlino, New York e Cape Town a sei persone comuni con delle vite fuori dal comune, provenienti da Siria, Congo, Angola, Somalia, Venezuela, India. Tutti loro sono accomunati da una fuga e da un trasferimento, ma le ragioni e i percorsi sono diversi. Sarah Mardini è una nuotatrice professionista che è scappata dalla guerra in Siria (e nel viaggio insieme alla sorella Yusra ha spinto la barca con 20 persone a bordo, nuotando fino alle coste greche); Farah Mohamed è stato perseguitato in Somalia per il suo ateismo; Mamy Langa, dopo aver subito una violenza sessuale e l’uccisione del marito, è fuggita dal Congo con i suoi bambini; Shabeena Saveri è un’attivista transgender che ha dovuto lasciare l’India; Luis Nava è un dissidente venezuelano discriminato per la sua omosessualità; José Maria João è un ex bambino soldato scappato dalla guerra civile in Angola.
Nelle interviste, le loro parole – le stesse che usano gli attori in un montaggio più serrato – suscitano un effetto diverso: la “loro” emozione è trattenuta, la “nostra” percezione si muove tra l’interesse, il pudore, l’indifferenza. Le sei persone intervistate sanno che il loro racconto verrà interpretato da Baldwin e Moore e li ringraziano per la visibilità che, grazie ai due attori di Hollywood, riceveranno quelle vicende.
Il lavoro di Candice Breitz dimostra chiaramente come siamo più disposti ad ascoltare e a commuoverci per una fiction che non di fronte a una narrazione autentica. Come e quando si genera l’empatia? Guardare davvero il volto dell’altro, e ascoltare le sue parole, implica una scelta: una scelta ancor più etica oggi, nel periodo storico che viviamo, saturato dalle narrazioni finzionali e dalla difficoltà di distinguere il vero dal falso.
Il termine che l’artista usa per descrivere le storie che ascoltiamo è displacement: in inglese corrisponde a “trasferimento, esilio, migrazione”, ma anche a “rimozione”. La nostra indifferenza, il nostro spostamento di attenzione di fronte a queste storie, a queste vite, a queste persone, è un atto di rimozione psicologica? Forse non è un paradosso che, nella società dello spettacolo e della post verità, Hollywood sia il veicolo migliore per innescare l’immedesimazione e dare visibilità alla realtà. La storia delle sorelle Mardini ha già attirato l’attenzione del mondo del cinema e verrà trasposta in un film: quanti che ora costruiscono blocchi stradali o si battono contro lo ius soli si commuoveranno per la sua storia tradotta in fiction? Ma basteranno quelle lacrime finzionali per attivare un senso di solidarietà che al momento sembra perduto? O ce ne dimenticheremo appena spenta la Tv?
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