Il calcio è un’eccellente, anche se spesso sottovalutata, lente focale attraverso cui guardare il mondo in cui viviamo. Quello che ruota attorno al pallone, del resto, è un microcosmo in cui si riflettono quotidianamente le contraddizioni della nostra società.E questo vale ancor più in Italia, un Paese in cui dall’ultimo ventennio si va più affermando una monocultura calcistica a detrimento di quel bagaglio polisportivo che si era sviluppato nel corso degli anni Ottanta e Novanta.
Dinnanzi alla graduale diffusione del Covid-19, che ha provocato un’emergenza inizialmente sottovalutata, i vertici del calcio nostrano, come peraltro tutti i principali decisori politici, hanno dovuto affrontare una questione di non facile soluzione: il trade-off fra salute ed economia. Quanto cedere della seconda per preservare la prima? Purtroppo però, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, quando ancora il Coronavirus, descritto come «poco più di una banale influenza», non era ancora percepito in tutta la sua gravità, i padroni del pallone non hanno certo brillato in termini di leadership e responsabilità.
Basti pensare all’incontro Juventus-Inter, valido per la 26° giornata di ritorno del campionato italiano di Serie A, originariamente previsto per il 1° marzo. Di fronte all’aumento del numero dei contagiati nel nord Italia, si è prima pensato di giocare a porte chiuse, poi a porte aperte ma di lunedì 2 marzo; successivamente l’incontro è stato posticipato al 13 maggio e infine si è giocato l’8 marzo a porte chiuse. Tutto questo in un teatrino di polemiche, reciproche accuse e teorie del complotto, alimentato dai social network ma anche da una certa stampa sportiva e da alcuni dirigenti irresponsabili e in cui a malapena veniva presa in considerazione la salute di tifosi e calciatori.
Anche il fatto che non si sia trovato un accordo per trasmettere le partite in chiaro ed evitare quindi i tradizionali assembramenti degli appassionati, che nel weekend riempiono i pub per godersi la partita e una birra fresca, rappresenta un’ulteriore dimostrazione di come in un primo momento le considerazioni economiche siano state anteposte alle esigenze di salute pubblica. Certo, la Legge Melandri poteva essere in questo senso un ostacolo, ma più che altro è sembrata una scusa da dare in pasto all’opinione pubblica. Tanto più che questa polemica è stata superata dalla responsabile decisione dei vertici sportivi (Coni e Figc in primis) di sospendere tutte le attività.
Il provvedimento che ha imposto lo stop ai campionati di calcio rappresenta senz’altro un aspetto che gli storici del futuro, nello studiare la risposta nello Stivale all’emergenza Covid-19, dovranno tenere ben presente. Per molti italiani infatti, in un momento in cui nonostante gli appelli dei virologi migliaia di persone si riversavano sulle piste da sci o facevano allegre scampagnate, lo stop alla Serie A è stato un vero e proprio campanello d’allarme. Per generazioni cresciute con lo slogan «The show must go on», vedere il calcio fermarsi ha indicato la misura della serietà della situazione.
Peraltro, il fatto che a livello internazionale si siano continuati a giocare o a programmare incontri delle Coppe europee, ha in parte riabilitato i vertici del nostro calcio. In questa particolare situazione, infatti, l’Uefa ha adottato un approccio per certi versi paragonabile a quello del premier inglese Boris Johnson. Il governo del calcio europeo ha infatti cercato fino all’ultimo di preservare i propri interessi economici, trovandosi costretto a fermare lo show solamente davanti ai primi casi di positività degli atleti. Il primo della Serie A è stato Daniele Rugani e il suo annuncio ha contribuito a veicolare ulteriormente il messaggio che il virus poteva colpire, oltre agli anziani, anche persone giovani e in forma.
Diversi calciatori e allenatori hanno poi usato la propria visibilità per mandare dei messaggi. Il fantasista della Juventus Federico Bernardeschi ha scritto: «Abbiamo deciso di offendere, cacciare, allontanare. Abbiamo fatto morire donne e bambini, perché prima veniva la nostra sicurezza, la nostra ricchezza e poi le loro vite. E adesso siamo noi gli emarginati, siamo noi a essere discriminati e cacciati, rinchiusi tra i confini di un Paese che soffre. Quando tutto questo finirà, ricordiamoci di questi giorni, di questa sofferenza, di questa isteria che ci ha trasformato in animali mossi solo dall'istinto di sopravvivenza, senza ragione, senza rispetto per nessuno».
L’8 marzo i giocatori del Pescara erano scesi in campo, indossando delle mascherine per protestare contro il fatto che, mentre si chiedeva agli italiani di stare a casa, un’attività non certo indispensabile come il calcio fosse costretta a proseguire. Il giorno successivo, Francesco Caputo, attaccante del Sassuolo, in quella che è stata l’ultima recita della Serie A prima della sospensione, dopo aver segnato una doppietta contro il Brescia ha sdoganato due slogan che hanno accompagnato le vite degli italiani nella prima settimana di quarantena «Andrà tutto bene. Restate a casa».
L’allenatore dell’Everton Carlo Ancelotti si è speso affinché alla luce dell’esperienza italiana, l’Inghilterra non sottovalutasse ulteriormente il problema. Il suo collega del Liverpool, il tedesco Jürgen Klopp, oltre a dare colorite lezioni ai suoi tifosi sull’importanza di evitare il più possibile i contatti interpersonali, si è invece speso per il riconoscimento della competenza: «Ciò che non mi piace nella vita è che, per una cosa molto seria, l'opinione di un allenatore di calcio sia importante. Non capisco, non può essere che chi non ha conoscenza della materia, come me, parli di certe cose».
Non è certo mancata la demagogia. Sui social è diventata virale la frase: «Avete dato un milione al mese ai calciatori e 1.300 euro a medici e ricercatori: ora fatevi curare da Ronaldo», come se fosse stato il calcio e non anni di politiche neoliberali e tagli orizzontali ad aver minato le fondamenta della sanità pubblica. Proprio Ronaldo è per certi versi la dimostrazione vivente del fatto che anche in un mondo di privilegiati la quarantena non è uguale per tutti. Al centravanti portoghese infatti è stata concessa la deroga di rientrare a Funchal dalla sorella, mentre gli altri 121 tesserati Juve sono dovuti rimanere a Torino. Insomma la riproduzione dorata di una problematica ben più seria denunciata anche da Alessandro Giglioli.
Il pallone è così, sfugge a ogni tentativo di categorizzazione. Inutile e indispensabile allo stesso tempo. Basti pensare a quello che è successo a Bergamo, la provincia italiana più colpita dal Coronavirus. Nei giorni dell’emergenza l’Atalanta è andata a Valencia a giocare un’assurda e spettrale partita di calcio in cui ha vinto per 4-3, offrendo spettacolo, e soprattutto centrando una storica qualificazione ai quarti di finale di Champions League.
Quel giorno a Bergamo, almeno per 90 minuti, si è riusciti a non pensare al virus senza però riempire le strade per festeggiare. I calciatori hanno celebrato il successo mandando un messaggio e una dedica alla città: «Bergamo è per te, mola mia» e il giorno dopo medici e infermieri hanno postato le loro foto con sciarpe e vessilli neroazzurri. Due istantanee che descrivono alla perfezione come attraverso lo sport si vivano emozioni e si costruisca un senso di comunità non sempre facilmente riproducibili. Del resto, anche se è stato giusto chiudere tutto e probabilmente lo si sarebbe dovuto fare prima, non esistono statistiche per misurare le emozioni che solo il calcio sa dare e per le quali vale la pena vivere.
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