L’approssimarsi delle elezioni regionali previste per il 2024 e il 2025 e la presentazione, da parte del governo Meloni, del disegno di legge costituzionale sul cosiddetto “premierato” hanno fatto tornare d’attualità il dibattito sui limiti massimi di mandati per i vertici degli esecutivi eletti direttamente. In più casi, al fine di criticare tali limiti, sono stati utilizzati, da parte degli stessi sindaci o presidenti di Regione cui essi dovrebbero applicarsi o da altri, argomenti che appaiono assai deboli, e che merita perciò richiamare e discutere. Anche per ricordare le “buone ragioni”, anzitutto costituzionali – ma in fondo forse pure politiche, come si accennerà – che sono alla base del divieto di più mandati consecutivi come uno dei (non molti) contrappesi all’ampliamento e alla personalizzazione del potere che, in capo all’organo monocratico di vertice dell’esecutivo, discendono dall’elezione diretta.
Un primo argomento, avanzato in più occasioni (tra l’altro dal presidente della Regione Veneto Zaia), è quello secondo cui il divieto di essere eletti per più di un certo numero di mandati si rivelerebbe essere “offensivo” verso gli elettori, che sarebbero così considerati come degli “idioti”, incapaci – si suppone – di rimuovere un presidente sgradito.
L’argomento, pur diffuso, non regge a un raffronto, foss’anche superficiale, di tipo comparatistico. Non mi pare che gli elettori statunitensi, e neppure quelli delle numerose democrazie che prevedono, in vario modo, forme di term limits a corredo e come contrappeso dell’elezione diretta dei vertici dell’esecutivo, possano considerarsi offesi o limitati nelle loro possibilità di scelta.
Semmai, è noto come sia stata frequente, specie nei presidenzialismi latinoamericani, la tentazione di forzare o di aggirare in qualche misura il limite dei mandati, perlopiù previsto da norme costituzionali: con esiti a volte anche drammatici, che hanno condotto quegli Stati alla soglia di vere e proprie guerre civili.
Un primo argomento è quello secondo cui il divieto di essere eletti per più di un certo numero di mandati si rivelerebbe essere “offensivo” verso gli elettori, che sarebbero considerati incapaci di rimuovere un presidente sgradito
Un secondo argomento fa leva sull’inesistenza di un limite analogo per cariche di tipo rappresentativo, come i deputati, i senatori o per i consiglieri regionali, per le quali non vige alcun limite al numero di mandati consecutivi (lo si veda impiegato dal sindaco di Bari e presidente dell’Anci Decaro).
Chi usa questo argomento trascura un elemento macroscopico: ossia, che vi è una profonda differenza tra la titolarità della carica di vertice di poteri esecutivi e quella di mandati rappresentativi all’interno di assemblee elettive. Il rischio di concentrazione e di personalizzazione del potere è molto ridotto nel secondo caso, mentre appare elevato per i vertici dell’esecutivo, soprattutto allorquando questi siano eletti direttamente dai cittadini e possano perciò fondarsi su una legittimazione di tipo popolare. Quest’ultima risulta perciò invocabile a supporto delle decisioni che essi assumono, in solitudine o in seno all’organo collegiale da essi presieduto, con una radicale differenza rispetto ai singoli parlamentari, che quella legittimazione popolare possono sì vantare, ma soltanto al fine di sostenere la loro azione rappresentativa quali componenti di un collegio ampio e per definizione pluralistico.
Un terzo ordine di argomenti fa leva sulla dimensione territoriale nella quale il limite in questione dovrebbe trovare applicazione. Ad esempio, si è di recente autorevolmente sostenuto che per le cariche “amministrative” non si porrebbero le stesse esigenze di evitare una sorta di “monarca elettivo”, che sussistono in ambito statale. O si fa spesso leva sulla difficoltà, a livello locale, di poter contare su personale politico di livello adeguato a garantire un ricambio costante.
Argomenti di questo tipo hanno anche portato a elevare da due a tre il numero massimo di mandati consecutivi per i sindaci dei comuni più piccoli: prima per i comuni con meno di 3.000 abitanti e poi per quelli con meno di 5.000 abitanti (cfr., rispettivamente, l’art. 1, comma 138, della legge n. 56 del 2014, e l’art. 51 Tuel, come modificato dall’art. 3 della legge n. 35 del 2022).
Questi argomenti, pur diffusi ed evidentemente almeno in parte condivisi dal legislatore, mi paiono anch’essi assai discutibili: i rischi di concentrazione e di personalizzazione del potere non si riducono di certo solo perché l’elezione riguarda un numero limitato di cittadini e un’area più limitata di territorio. Anzi, si può persino sostenere la tesi esattamente opposta, ossia che il limite di mandati sia particolarmente utile proprio nelle realtà minori, al fine di evitare clientelismi e il prodursi di meccanismi di conservazione del potere tali da impedire ogni ricambio nell’esercizio del governo locale.
Un quarto argomento, di maggiore consistenza, fa leva sulla mancata previsione di un limite di mandati per il presidente del Consiglio nel momento in cui il governo ne propone una modifica alla Costituzione volta a prevederne l’elezione diretta. È chiaro che avrebbe poco senso mantenere tale limite per sindaci e presidenti di Regione e non prevederlo invece per un premier eletto direttamente.
Non è un caso, in proposito, che alcuni tra gli esperti auditi dalla Commissione affari costituzionali del Senato abbiano segnalato tale lacuna. E neppure che la stessa presidente del Consiglio Meloni, nella conferenza stampa del 4 gennaio 2024, abbia aperto quanto alla possibilità che tale limite sia introdotto nel corso dell’iter parlamentare della riforma.
Anche la Corte costituzionale ha avuto modo di intervenire, di recente, evidentemente nella piena consapevolezza di esprimersi su una questione sensibile del dibattito politico-istituzionale. E lo ha fatto con parole inequivoche, ovviamente nel senso di ribadire l’utilità del limite dei mandati, a tutti i livelli di governo.
Il riferimento è alla sentenza n. 60 del 2023, ove la Corte, con riferimento a una legge della Regione Sardegna, ha tra l’altro sottolineato quanto segue: “La previsione del numero massimo dei mandati consecutivi – in stretta connessione con l’elezione diretta dell’organo di vertice dell’ente locale, a cui fa da ponderato contraltare – riflette infatti una scelta normativa idonea a inverare e garantire ulteriori fondamentali diritti e principi costituzionali: l’effettiva par condicio tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della rappresentanza politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali” (corsivi aggiunti). Sempre la Corte ha segnalato come tale limite appaia a maggior ragione giustificato in ragione dell’allungamento da 4 a 5 anni del mandato dei sindaci, intervenuto nel 2000.
Il limite al numero di mandati elettivi è tra i limiti più difficilmente digeribili, tra quelli che il diritto (costituzionale) pone alla politica
È chiaro che il limite al numero di mandati elettivi è tra i limiti più difficilmente digeribili, tra quelli che il diritto (costituzionale) pone alla politica. Si tratta di un limite drastico, comprensibile a tutti, che può sì essere aggirato con la candidatura di figure assai vicine all’uscente, ma che comunque incide profondamente e spesso scombussola i giochi e gli equilibri politici: chiama le forze politiche e le coalizioni sia a individuare un nuovo nominativo in grado di sostituire l’uscente, sia a proporre a quest’ultimo un incarico adeguato al suo peso politico che, specie dopo lo svolgimento di due mandati, è in genere assai ragguardevole. Mentre la ricandidatura dell’incumbent si rivela essere una scelta più facile e più “naturale”, oltre che spesso vincente.
Tutto ciò spiega come mai i “nemici” del limite ai mandati siano tanti, e diffusi nelle diverse forze politiche.
Eppure, se si riflette sull’esperienza fin qui verificatasi, se ne ricavano indicazioni che spesso confermano i problemi connessi a una lunga permanenza in una carica di vertice dell’esecutivo. Emblematica è la vicenda dei “primi” presidenti di Regione eletti direttamente nel 2000 in due Regioni importanti, quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna (Roberto Formigoni e Vasco Errani, peraltro già titolari della carica di vertice l’uno dal 1995, l’altro dal 1999). Ebbene, in entrambi i casi la permanenza anche oltre i due mandati direttamente eletti si è rivelata foriera di problemi e di inchieste giudiziarie, conclusesi con esiti diversi (con la condanna per il primo; con l’assoluzione in appello per il secondo), ma che hanno portato in entrambi i casi a elezioni anticipate.
Insomma, se viste con la giusta distanza, le garanzie costituzionali possono finire per fare l’interesse delle istituzioni e dei loro titolari, anche quando sembrano apparentemente porre ostacoli alle dinamiche prettamente politiche.
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