Che cos'hanno in comune Donald Trump, Viktor Orbán, Mateusz Morawiecki, Marine Le Pen, Giorgia Meloni (e per certi aspetti si potrebbe aggiungere Vladimir Putin)? Perché hanno successo?
Per ragioni di brevità (e di competenza) mi concentro sull'economia, che rimane pur sempre al centro della contesa per il consenso. Pur tra le inevitabili diversità di contesto e storie sembra emergere un comune modello che propongo di definire nazionalcapitalismo. Ossia, in sintesi, l'organizzazione socio-economica di tipo capitalista incorniciata in un sistema ideologico, politico e istituzionale imperniato sulla nazione e l'interesse nazionale.
Questo modello viene proposto in opposizione sia a quello socialdemocratico europeo, sia a quello liberista anglosassone – e con un certo successo a quanto pare, favorito anche dal fatto che il primo è diventato pressoché indistinguibile dal secondo. In questa fase emergente del nazionalcapitalismo, fa gioco enfatizzare le differenze con gli altri modelli, ma ci sono anche delle sovrapposizioni. Anzi, il successo deriva forse proprio dalla combinazione "creativa" di ciò che viene preso dagli altri modelli. Vediamo più in dettaglio i tratti comuni del nazionalcapitalismo, astraendo dalle differenze nazionali.
Sovranità della nazione e democrazia limitata. Il tratto più eclatante e conflittuale è l'esplicita contestazione, talvolta anche messa in pratica, di alcuni principi cardine della democrazia liberale riguardanti l'estensione dei diritti individuali, fino ad arrivare ai check and balance tra poteri e la loro contendibilità. In buona sostanza, viene proposto uno scambio tra l'espansione della sovranità della nazione, in capo al potere politico costituito, e la limitazione della sovranità del cittadino in quanto tale.
Gli studi su questo tipo di proposte politiche restituiscono un quadro abbastanza preciso di quali siano l'origine e la materia dello scambio. Il terreno di coltura del nazionalcapitalismo è l'autodafé del capitalismo liberista globalizzato, culminato con la crisi finanziaria mondiale del 2007-08, e la conseguente crisi esistenziale dei ceti al centro – economico, sociale e politico – del capitalismo democratico-liberale affermatosi in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale. Tra gli studiosi si dibatte su quale sia la causa principale della crisi di questi ceti, e quale sia il peso del loro impoverimento economico relativo, ma quel che conta è il risultato. L'economia, la società e la politica si sono polarizzate tra l'alto di chi ha rafforzato o mantenuto l'accesso alle risorse economiche e politiche e il basso di chi le ha perse.
La materia dello scambio politico, in sintesi, è la promessa di restituire un insieme di benefici materiali (sicurezza economica, sociale, individuale, militare) e immateriali (identità culturale, religiosa) andati perduti. Come vedremo, la produzione di tali benefici richiede un'organizzazione dei poteri statuali e del loro ruolo nell'economia diversa, tendenzialmente alternativa, rispetto a quella sia del modello liberista sia di quello socialdemocratico.
Polarizzazione e verticalizzazione. I leader nazionalcapitalisti presentano un'offerta politica interclassista, di ricomposizione della società polarizzata, rivolta sia a chi detiene le leve dell'economia sia a chi ne dipende. Il punto di sintesi è l'idea di nazione, la difesa della sua sovranità e del suo interesse, presentati come sovranità e interesse di tutti. Si tratta di un modello ibrido risultante da una "ingegneria genetica" operata sui due modelli antecedenti e concorrenti.
Il punto di sintesi è l'idea di nazione, la difesa della sua sovranità e del suo interesse, presentati come sovranità e interesse di tutti
Il nazionalcapitalismo si rivolge "a destra" condividendo col modello liberista l'impianto del sistema economico-sociale, con una forte accentuazione della proprietà privata come pilastro e dell'attività produttiva come fonte di legittimazione sociale e di cittadinanza. Molto spazio viene lasciato all'esercizio del potere economico e al godimento individuale dei suoi frutti. "Non disturberemo chi produce ricchezza" è uno degli slogan del governo Meloni, accompagnato da alcune affermazioni e provvedimenti di stampo thatcheriano. Ma il mercato fondato sulla concorrenza non è il principio ordinatore del sistema economico, né in patria né a maggior ragione a livello internazionale, e il ruolo dello Stato non si limita a quello regolativo.
Rivolgendosi "a sinistra", si raccoglie dalla socialdemocrazia (quella storica, prima della torsione liberista) il testimone del ruolo attivo dello Stato nell'economia, che però viene concepito e attuato in maniera direttiva anziché concertativa, a scapito delle politiche redistributive e del ruolo delle organizzazioni sindacali e di altri corpi intermedi. Naturalmente le differenze storiche contano. Così, nel nazionalcapitalismo trumpiano gli ingredienti di origine socialdemocratica sono minimi, mentre nelle versioni europee sono più consistenti.
Il modello risultante è imperniato sulla verticalizzazione dei rapporti tra produttori nazionali e Stato. I produttori, capitalisti e lavoratori, sono associati nel comune destino dell'azienda, esito della disarticolazione del mercato del lavoro e della disintermediazione sindacale. Il destino dei produttori, pur lasciando operare le forze di mercato, in ultima istanza dipende dall'accesso alle risorse politiche ed economiche messe a disposizione dal potere politico. Esso agisce in modo dichiaratamente discrezionale in funzione di quel che viene ritenuto di volta in volta, e a seconda dell'interlocutore, meritevole di tutela in quanto conforme all'interesse nazionale. Si espande lo spazio dell'intervento politico nell'economia, dall'uso di barriere protezionistiche interne ed esterne, alla promozione dei campioni nazionali, al controllo diretto di industrie strategiche.
All'interno dei confini della nazione (geografici certo, ma soprattutto identitari) l'economia privata funziona secondo meccanismi capitalistici anche molto spinti, soprattutto nel mercato del lavoro, ma con il patto che la ricchezza verrà prodotta e rimarrà all'interno di tali confini (l'America first di Trump). Questo patto sulla ricchezza della nazione – e per la nazione – è prioritario rispetto all'equità della sua distribuzione. Non interessa la disuguaglianza tra ricchi e poveri italiani, ma tra italiani e stranieri. Il messaggio ai lavoratori nazionali è che le loro condizioni di reddito e di vita, che "le sinistre col Rolex" hanno cessato di presidiare, non sono (più) lasciate alle oscure forze del mercato globale. Tuttavia le tutele non sono garantite né per via normativa sul mercato del lavoro né da meccanismi fiscali generali, che i nazionalcapitalisti detestano tanto quanto i liberisti. Ai sistemi di Welfare vengono sostituite le vie che verticalmente conducono al potere politico, attraverso leggi, regolamenti, sussidi, esenzioni settoriali, categoriali, ecc. Nella versione mediterranea il modello è semplice e infallibile: tassare poco e spendere molto.
Il patto sulla ricchezza della nazione e per la nazione è prioritario rispetto all'equità della sua distribuzione: non interessa la disuguaglianza tra ricchi e poveri italiani, ma tra italiani e stranieri
Questo modello richiede una cornice istituzionale funzionale. Innanzitutto il potere esecutivo deve essere stabile e garantito su un orizzonte temporale molto più esteso di quello normalmente previsto dai meccanismi elettorali tradizionali (meglio se attenuati). In secondo luogo, esso deve godere di una latitudine di esercizio del potere e di margini di discrezionalità che entrano in conflitto coi check and balance delle costituzioni liberal-democratiche. Inoltre la discrezionalità, per servire efficacemente l'identità nazionale sia come collante socio-economico che come criterio di accesso alle risorse, deve poter essere esercitata ad excludendum (su base geografica, etnica, religiosa, sessuale, ideologica…) in collisione con lo spirito ad includendum delle democrazie liberali.
È possibile a lungo andare la coesistenza tra questa sovrastruttura e l'impianto liberal-democratico del capitalismo? La risposta che dà la storia è che la democrazia liberale comporta necessariamente le libertà economiche (proprietà, scambio, impresa) e quindi le condizioni per un'economia capitalista, ma non viceversa. Lo colse con grande lucidità e preveggenza Benito Mussolini in un suo saggio (di grande interesse per l'attualità) pubblicato nel 1925 sulla rivista "Gerarchia", là dove affermava: "Può darsi che nel XIX secolo il capitalismo avesse bisogno della democrazia: oggi può farne a meno". E difatti le élite del capitalismo dell'epoca non si distinsero nel contrasto all'avvento dei regimi totalitari in Europa occidentale, e, come noto, gli Stati Uniti rimasero in un precario equilibrio fin nel pieno dell'età rooseveltiana. Il Secondo dopoguerra è costellato di dittature instaurate con lo scopo di salvaguardare l'assetto capitalista del Paese e la sua collocazione internazionale, anche se ciò avvenne prevalentemente alla periferia del sistema. E non manca qualche analogia tra il nazionalcapitalismo sin qui tratteggiato e il sistema economico concepito dal fascismo italiano o dal nazionalsocialismo tedesco.
L'ascesa del nazionalcapitalismo tra le classi dirigenti è frenata da due ostacoli: il fatto che sia cessato il "pericolo comunista" e che l'élite del capitalismo è oggi globalizzata
Oggi l'ascesa del nazionalcapitalismo tra le classi dirigenti è frenata da due ostacoli. Il primo è che è cessato il "pericolo comunista", che ebbe un ruolo chiave nei divorzi tra capitalismo e democrazia sia tra le due guerre mondiali sia durante la Guerra fredda. Il secondo è che oggi l'élite del capitalismo è globalizzata. La concentrazione del potere economico e dell'influenza politica si trova nella finanza e nelle industrie immateriali (telecomunicazioni, mass media, intelligenza artificiale ecc.). Per costoro la (ri)nazionalizzazione del capitalismo è un pericolo serio. E dall'altra parte del fronte questo scontro viene molto ben volentieri enfatizzato attraverso la retorica contro le élite cosmopolite, antipopolari, senza patria (e senza Dio).
I leader d'ispirazione nazionalcapitalista alla guida di Paesi occidentali, finora, non hanno prodotto i disastri economici previsti dagli economisti mainstream. Ciò è dovuto solo in parte alla moderazione delle promesse elettorali insita nelle responsabilità di governo. Tuttavia il loro modello di ricomposizione sociale sotto il grande mantello protettivo della Nazione è contraddittorio in quanto esso stesso crea nuova polarizzazione e frammentazione. La valvola di sfogo del debito pubblico crea instabilità finanziaria ed erode la sovranità nazionale, soprattutto per i Paesi membri dell'Unione europea.
La linea rossa dei principi democratici non negoziabili che il nazionalcapitalismo non deve oltrepassare potrebbe spostarsi sempre più in là, e magari dissolversi
A favore dei nazionalcapitalisti giocano però le contraddizioni create e lasciate dal capitalismo globalizzato. Per giunta la pandemia Covid-19 e la guerra della Russia all'Ucraina (che pure qualcosa hanno a che fare con una globalizzazione non governata) hanno fatto precipitare le condizioni per la "deglobalizzazione", ossia una ristrutturazione dell'economia mondiale per blocchi geopolitici, tracciati secondo criteri di sicurezza strategica nazionale, in cui le pure logiche di mercato sono messe in secondo piano. Su questo fronte sono eloquenti alcuni passi compiuti anche dall'amministrazione Biden.
In questo quadro una parte importante della classe dirigente economica, con il pragmatismo "né di destra né di sinistra" che la contraddistingue, può diventare nazionalcapitalista, o lo sta già diventando, specie nei Paesi dove sono meno presenti i settori globalizzati ricordati prima, e meno consolidati sono gli stili di vita libertari e cosmopoliti, come l'Italia e la fascia orientale dell'Unione europea. La linea rossa dei principi democratici non negoziabili che il nazionalcapitalismo non deve oltrepassare potrebbe spostarsi sempre più in là, e magari dissolversi.
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