Convinto che «una delle leggi immutabili della storia sostiene che non si può debellare un’idea imprigionando i suoi sostenitori», Lord Christopher Francis Pattern, ultimo governatore britannico di Hong Kong e attuale rettore dell’Università di Oxford, concludeva la prefazione al libro di Joshua Wong e Jason Y. Ng,  Noi siamo la rivoluzione. Perché la piazza può salvare la democrazia (trad. it. Feltrinelli, 2020) con un monito affatto banale, avendolo posto alla vigilia di eventi drammatici che avrebbero cambiato il futuro e i destini non solo di Hong Kong:

«Spero che nel frattempo il mondo resti attento per capire fino a che punto ci si possa fidare della Cina e delle sue promesse. Per quanto riguarda me e tanti altri, mi fido più di Joshua che dei burocrati comunisti di Pechino o di chi li appoggia fuori o dentro la città».

Joshua è Joshua Wong, il giovane leader politico co-fondatore di Demosistō, il partito di punta delle proteste pro-democrazia sciolto nel 2020 che si batteva contro l’ingerenza delle autorità di Pechino nell’autonomia di Hong Kong.

Era il maggio 2018. Il libro è un manifesto di lotta e di speranza, nel quale i due autori raccontano i momenti più significativi delle loro vicissitudini e le ragioni che hanno spinto migliaia di giovani e non più giovani hongkonghesi alla protesta, trasformatasi infine in lotta per la sopravvivenza sia per i rivoltosi, determinati a difendere i loro ideali e i valori di libertà mettendo a rischio la propria incolumità, sia per i politici dell’ex colonia e ancor più della Cina continentale, interessati principalmente a conservare i propri privilegi, personali e di casta, e a ribadire l’ineluttabile affermazione del Partito comunista come guida della nazione.

I manifestanti si sono schierati in difesa dei valori civili e politici a cui erano abituati fin dalla nascita e che vedevano minacciati dal ritorno di Hong Kong alla madrepatria. I loro timori erano più che fondati, come aveva predetto Lord Pattern un anno prima che scoppiassero i disordini del 2019-2020, la cui repressione ha rivelato quale fosse l’intento della dirigenza cinese al momento della firma della Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984, con la quale la Gran Bretagna si impegnava ad abbandonare Hong Kong il 1° luglio 1997. L’accordo prevedeva un periodo di transizione di 50 anni per consentire alle autorità cinesi di promulgare ordinamenti più liberali rispetto a quelli vigenti nella Repubblica popolare, in ossequio al principio costituzionale «un Paese, due sistemi». La Dichiarazione prevedeva inoltre che il sistema politico ed economico di Hong Kong sarebbe rimasto invariato per tutto il periodo di transizione.

Com’è evoluta la situazione è fatto noto. Nel momento più drammatico della pandemia Covid-19, il governo ha promulgato una legge sulla sicurezza di stampo liberticida e una nuova legge elettorale; ha inoltre costituito una Commissione speciale con il compito di valutare la «lealtà patriottica» di ogni aspirante candidato, in netto contrasto con gli accordi sottoscritti che avrebbero dovuto garantire un alto grado di autonomia dell’ex colonia. Su queste basi, i partiti pro-democrazia sono stati messi al bando o, comunque, indotti alla chiusura, essendo i loro leader finiti in galera con l’accusa di attività sovversive e antigovernative o costretti a rifugiarsi all’estero per evitare il carcere. Sono state quindi indette nuove elezioni che, disertate da oltre i due terzi degli aventi diritto, hanno definitivamente sancito il controllo di Pechino sull’Isola Profumata, a dispetto degli impegni sottoscritti e della scadenza concordata del 2047.

Il 6 febbraio 2023 ha preso avvio il processo a 47 attivisti incarcerati con l’accusa di sedizione, avendo organizzato manifestazioni ed elezioni primarie non autorizzate, e di cospirazione volta a sovvertire il potere statale

Il 6 febbraio 2023 ha preso avvio il processo a 47 attivisti incarcerati con l’accusa di sedizione, avendo organizzato manifestazioni ed elezioni primarie non autorizzate, e di cospirazione volta a sovvertire il potere statale. Tra gli imputati figurano politici, ex parlamentari, accademici e attivisti, per lo più esponenti di spicco dell’opposizione filodemocratica, tra i quali anche Joshua Wong. Il processo si è tenuto senza giuria al cospetto di tre giudici scelti da un pool di giuristi selezionati dal neogovernatore di Hong Kong John Lee, ex poliziotto ed ex sottosegretario alla sicurezza, gradito a Pechino, distintosi per l’intransigenza nei confronti dei partiti pro-democrazia e per il ruolo chiave svolto nella repressione delle proteste. Nella speranza di ottenere sconti di pena, 31 imputati si sono dichiarati colpevoli, i rimanenti 16 non colpevoli. Nella seduta del 30 maggio due di loro sono stati assolti, mentre i rimanenti 14 sono stati giudicati colpevoli: rischiano l’ergastolo, una pena all’apparenza sproporzionata, prevista però dalla nuova legge sulla sicurezza e ritenuta congrua dalle autorità di un Paese che nella sua lunga storia ha visto collassare dinastie secolari sull’onda dei disordini popolari.

Il mondo ha assistito impotente alla presa di Hong Kong, gli affari non ne hanno risentito e le nostre coscienze hanno trovato presto un punto di equilibrio accettabile. Le poche proteste e le dichiarazioni dei governi stranieri sono servite solo a irritare le autorità di Pechino, che hanno chiesto a chiunque commentasse la sentenza di assumere una posizione «obiettiva e imparziale» e di «interrompere senza esitazione ogni forma di interferenza negli affari interni di Hong Kong e della Repubblica popolare cinese». Nabila Massrali, portavoce del servizio diplomatico dell’Unione europea, ha dichiarato che

«gli imputati coinvolti nelle elezioni primarie non ufficiali organizzate dall’opposizione pro-democrazia a Hong Kong nel luglio 2020 vengono colpiti per un’attività politica pacifica che dovrebbe essere legittima in qualsiasi sistema politico che rispetti i principi democratici fondamentali. L’Ue è profondamente preoccupata per il procedimento giudiziario motivato politicamente contro i 47 difensori della democrazia, la prolungata detenzione preventiva e il rifiuto della libertà su cauzione per la maggior parte degli imputati, che minano la fiducia nello Stato di diritto sancito dalla Legge fondamentale di Hong Kong».

Il corsivo è mio, l’uso del condizionale di Nabila Massrali.

Colpiscono il metodo adottato, il disprezzo verso ogni forma di dissenso e di dialettica politica, l’uso strumentale dell’ordinamento giuridico a fini politici: com’è spesso accaduto, infatti, il diritto e gli organismi internazionali vengono chiamati in causa solo quando servono ai propri interessi, mentre vengono ignorati nel caso contrario. La sproporzione delle pene comminate rispetto ai reati di cui gli imputati sono stati accusati, sostanzialmente rubricabili tra i reati di opinione, mette in luce l’arroganza del potere, la disinvoltura con cui è venuta meno l’osservanza degli impegni sottoscritti al più alto livello istituzionale e l’inattendibilità di una classe politica che quegli impegni aveva promosso e sottoscritto.

Va ammirato il coraggio dei tanti giovani e degli attivisti più maturi che non hanno esitato a mettere a rischio la propria libertà, il proprio futuro e la propria incolumità per difendere ideali e valori ritenuti superiori alla vita stessa

Per contro, va ammirato il coraggio dei tanti giovani e degli attivisti più maturi che non hanno esitato a mettere a rischio la propria libertà, il proprio futuro e la propria incolumità per difendere ideali e valori ritenuti superiori alla vita stessa, in ossequio alla massima di Confucio (551-479 a.C.) «vedere ciò che è appropriato e giusto e non agire di conseguenza denota grave mancanza di coraggio» (Lunyu 2.24): un imperativo morale che trae alimento da un coraggio straordinario che fa agire le persone di valore non tanto sulla base della loro prestanza fisica, quanto della forza interiore e della sicurezza derivanti dalla propria integrità e dalla consapevolezza di trovarsi nel giusto. Queste persone di valore agiscono su un piano totalmente diverso rispetto agli uomini mediocri e nell’intento di sostenere una nobile causa possono arrivare a sacrificare ogni privilegio, la vita se necessario, come ha asserito Mencio, il maggiore interprete del pensiero di Confucio vissuto intorno al IV secolo a.C. Essendo uno dei filosofi del passato da cui Xi Jinping ama trarre ispirazione, vale la pena rileggere questo passo tratto dalla sua opera:

Se l’uomo non avesse nulla di più prezioso della vita a cui tenere, cosa non farebbe pur di conservarla? Se per lui non vi fosse nulla di più esecrabile della morte, cosa non farebbe pur di non esporsi a situazioni pericolose? Appare evidente che se vi sono casi in cui non si ricorre a ogni mezzo pur di conservare la propria vita e casi in cui, pur potendo evitare di esporsi a situazioni pericolose, non si fa nulla di concreto per evitarle, è perché esistono valori più importanti della vita e azioni più ripugnanti della morte. Un cuore siffatto non è appannaggio esclusivo delle persone di valore, è anzi comune a tutti; solo le persone di valore, però, sanno come mantenerlo integro (Mengzi 6A.10).

Il modello di «democrazia con caratteristiche cinesi», quale si evince dal libro bianco Cina, una democrazia che funziona pubblicato il 4 dicembre 2021 in concomitanza con le «elezioni patriottiche», è ritenuto dalle autorità cinesi migliore e più funzionale rispetto a quello liberale, un tassello essenziale nel processo di «costruzione di una comunità dal futuro condiviso», caposaldo della politica estera cinese. Il caso di Hong Kong dimostra inequivocabilmente quanto ampia sia la distanza tra le parole della politica e la loro effettiva applicazione pratica. La democrazia è sempre più in pericolo, le libertà e i diritti che sembrano acquisiti non sono affatto scontati; se non vengono costantemente meditati e difesi con coraggio si possono logorare e persino perdere: è stupido arrivare a tanto per comprenderne l’immenso valore.

La lotta per Hong Kong è stata persa nella sostanziale disattenzione di tutti, com’è successo per altre battaglie di civiltà combattute non solamente in Cina. Quei ragazzi coraggiosi hanno sacrificato la loro vita privilegiata, il loro futuro e la loro libertà lottando per la difesa di quegli ideali e principi con cui sono stati educati e in cui credono con la stessa determinazione che ebbero il secolo scorso i giovani intellettuali che scesero in campo e si batterono per una Cina migliore. Un destino simile a quello di Hong Kong potrebbe accadere presto a Taiwan, ultimo obiettivo di Xi Jinping per chiudere il «secolo della vergogna e dell’umiliazione nazionale», una ferita inferta dalle potenze imperialiste occidentali al popolo cinese a metà dell’Ottocento e per buona parte del Novecento non ancora rimarginata. E a temere la nuova postura internazionale della «Cina della nuova era» non è solo Taiwan, a giudicare dai crescenti contenziosi territoriali che la Repubblica popolare ha con tutti i Paesi limitrofi e con l’Occidente e i suoi alleati. Illuminanti sono, ancora una volta, le parole di Lord Pattern:

«Le persone che sostengono che l’unico modo per dialogare con Joshua e i suoi amici sia ricorrere allo Stato di diritto sono le stesse che sono rimaste in silenzio e hanno girato la testa dall’altra parte mentre i cittadini di Hong Kong venivano portati via dalla polizia segreta del Partito comunista cinese, senza alcun riguardo per l’autonomia e le leggi di Hong Kong. Forse quello che altri hanno visto non è veramente accaduto».