“Il più grande nemico del mio rapporto è il cassetto. L’obiettivo è evitare che finisca nel cassetto” (Enrico Letta, 16 aprile 2024). Il rapporto a cui si riferiva Letta è il Much More than a Market – Speed, security, solidarity (aprile 2024), commissionato dalla Commissione europea con l’obiettivo di ottenere indicazioni su come rilanciare il mercato unico e, così facendo, il dinamismo dell’economia europea.

A questo rapporto se ne affiancherà un altro, che dovrebbe uscire a breve, preparato da Mario Draghi, sul futuro della competitività europea, di cui si conoscono al momento solo le grandi linee (dotare l’Unione europea di una vera politica industriale e di una politica economica estera, in grado di tener testa alla competizione di altre grandi economie – Mario Draghi: An Industrial Strategy For Europe, Groupe d'études géopolitiques). Tuttavia, anche per questo rapporto il “nemico cassetto” è in agguato. Ed è in agguato anche per altre proposte trasformative dell’Unione europea, come per esempio quelle per darsi i mezzi e gli strumenti per avanzare sulla via dell’autonomia strategica aperta.

Naturalmente si potrebbe pensare che, avendo le elezioni europee confermato la maggioranza esistente (Popolari, Socialisti e Liberali, a cui si aggiunge l’appoggio esterno dei Verdi) e avendo il Parlamento europeo rieletto Ursula von der Leyen – che aveva commissionato entrambi i rapporti – a presidente della Commissione europea, almeno che le proposte contenute nei due rapporti verranno attuate (Ursula von der Layen, Political guidelines fot the next european commission 2024-2029).

Tuttavia, le cose non sono così semplici. Le elezioni europee hanno ridotto la maggioranza di cui dispone la Grande coalizione europea (che per questo ha avuto bisogno di aprirsi ai Verdi). Inoltre, le faglie programmatiche tra i componenti della maggioranza si sono ampliate rispetto a cinque anni fa. Da parte loro, i partiti etnonazionalisti della destra radicale si sono rafforzati significativamente, anche se non riusciranno a influire su molte scelte delle istituzioni europee e utilizzeranno il loro accresciuto peso per opporsi in Europa e nei rispettivi Paesi (in alcuni dei quali sono al governo) a iniziative volte a rafforzare le politiche dell’Unione e a aumentarne le risorse finanziarie.

I partiti etnonazionalisti della destra radicale si sono rafforzati significativamente, anche se non riusciranno a influire su molte scelte delle istituzioni europee e utilizzeranno il loro accresciuto peso per opporsi in Europa a iniziative volte a rafforzare le politiche dell’Unione

A questo si deve aggiungere che la composizione della nuova Commissione vedrà un significativo spostamento verso il centrodestra dei commissari e al momento i Popolari, fatte salve forse le questioni riguardanti l’industria militare europea, sono poco propensi a spingere verso un ulteriore rafforzamento delle competenze dell’Unione, ad aumentarne il bilancio o a consentire l’emissione di debito comune.

Infine, nel Consiglio europeo, nonostante la sconfitta del PiS in Polonia, il numero di Paesi con governi in cui esiste una forte componente sovranista è aumentato e questo renderà più difficile raggiungere accordi che consentano di attuare molte delle misure proposte nei due rapporti.

Le elezioni europee di giugno hanno avuto ripercussioni importanti non solo sull’Unione europea, ma anche sul motore franco-tedesco. I due Paesi che contano di più nell’Unione europea e la cui azione congiunta ha sovente determinato progressi importanti nell’avanzamento dell’integrazione europea stanno entrambi attraversando una profonda crisi politica.

In Germania, la coalizione semaforo (Spd, Liberali, Verdi) si avvia stancamente verso la sconfitta alle elezioni dell’anno prossimo. L’economia è debole sia per ragioni congiunturali (in primis la bassa crescita di investimenti e esportazioni) sia strutturali (un modello di crescita datato e ormai inadeguato) e la coalizione di governo è divisa sul da farsi. La crescita dell’economia tedesca – che si è attestata attorno allo zero l’anno scorso – quest’anno potrebbe risalire, secondo le previsioni del Fondo monetario e della Commissione europea, a un magro 1% nel 2025. Nonostante l’esistenza di margini di manovra fiscali, il ritorno al rigore di bilancio deciso lo scorso anno rende molto difficile prendere nuove iniziative in grado di rilanciare sia l’economia sia la coalizione. Il ritorno della Cdu alla guida del governo è dato praticamente per scontato. In una tale situazione, il governo tedesco è piuttosto intento a minimizzare le perdite e ben difficilmente sarà disposto ad assumere ambiziose iniziative europee, che potrebbero risultare elettoralmente costose.

In Francia, la decisione del presidente Macron di dissolvere il Parlamento e indire, alquanto improvvidamente, elezioni anticipate dopo la vittoria del Rassemblement National alle elezioni europee ha prodotto una situazione di ingovernabilità di difficile soluzione. I risultati del secondo turno delle legislative, mentre hanno scongiurato l’arrivo del Rassemblement National alla guida del Paese, indicano tuttavia che, in presenza di tre-quattro blocchi contrapposti, la governabilità della Francia è lungi dall’essere assicurata: sarà forse possibile formare un governo non-sovranista in grado di far approvare il bilancio in autunno, ma i suoi margini di manovra resteranno molto limitati. Inoltre, le diverse forze politiche cominceranno a posizionarsi per le elezioni presidenziali previste per il 2027. In una tale situazione ci sarà ben poco appetito per iniziative che, per quanto desiderabili per l’insieme dell’Unione, potrebbero essere tacciate di essere contrarie agli interessi della Francia e portare nell’immediato acqua al mulino del Rassemblement National. In un contesto di bassa crescita (inferiore all’1% nel 2023 e nel 2024 e prevista di poco superiore all’1% l’anno prossimo), un deficit e un debito pubblico elevati, e un forte malcontento sociale, è lecito supporre che la politica francese si focalizzerà essenzialmente su problemi domestici ed eventuali colpi d’ala da parte di Macron a livello europeo saranno piombati dalla sua debolezza politica.

A questo stadio è perciò difficile vedere come l’asse franco-tedesco possa far avanzare l’insieme delle politiche suggerite nei rapporti Letta e Draghi. Il motore franco-tedesco è inceppato e non può essere di grande aiuto. A questo si deve aggiungere che i restanti attori europei non sembrano pronti a esercitare una spinta propulsiva: il governo italiano ha forti pulsioni sovraniste ed è occupato su altri fronti (la riforma istituzionale, la stretta di bilancio che si annuncia per l’autunno), mentre il governo spagnolo ha margini di manovra molto limitati data la striminzita maggioranza di cui dispone. Infine, nei restanti Paesi dell’Unione, sovente i loro governi non condividono molte delle proposte ambiziose contenute nei due rapporti e preferiscono proteggere i loro interessi nazionali di breve periodo.

Certo è possibile che alcune delle misure contenute nei due rapporti, soprattutto se riguardano aspetti regolamentari e non prevedono un rafforzamento delle competenze dell’Unione o un aumento significativo delle risorse finanziarie necessarie per la loro realizzazione, possano essere approvate, ma si tratterebbe essenzialmente di iniziative ad hoc, non inserite in un quadro politico ed economico organico e coerente. Inoltre, in seguito all’incertezza politica in Francia, c’è il rischio addizionale che l’attenzione dei governi e delle istituzioni europee si sposti sulla situazione di bilancio dei diversi Paesi dell’Eurozona, ricreando uno psicodramma già vissuto nel passato (applicazione rigorosa delle regole europee versus maggiore flessibilità), che rischia di degenerare in sterili discussioni e mettere in secondo piano priorità più importanti.

È questo un quadro troppo pessimista? In fondo, le istituzioni europee potrebbero far proprie alcune proposte ambiziose contenute nei due rapporti e porre gli Stati membri di fronte alle loro responsabilità. Tuttavia, non c’è da contare troppo su un tale scenario. In un quadro politico fortemente frammentato, con governi pro-europei deboli e un Consiglio europeo con molti più Paesi membri reticenti se non ostili alla prospettiva di mobilitare le risorse politiche e finanziarie necessarie per avanzare ulteriormente nell’integrazione europea, è difficile pensare che esistano le condizioni per realizzare con successo una tale scommessa.

L’Unione europea e i suoi Stati membri non si sono preparati per tempo ad affrontare lo shock rappresentato da un’eventuale rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti

Qualcuno può pensare che, facendo di necessità virtù, un’eventuale vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane possa fornire lo shock necessario per spingere gli Stati membri ad abbandonare i propri egoismi nazionali e agire collettivamente al fine di rafforzare l’Unione. Tuttavia, a mio avviso, è improbabile che questo avverrà. Come ho argomentato il un articolo sul “Foglio” (L’Europa non è pronta ad affrontare una nuova tempesta arancione. Urgono ripari, 5 febbraio 2024) e più recentemente su “il Mulino” (Le sfide internazionali dell’Unione europea, n. 2/2024), l’Unione europea e i suoi Stati membri non si sono preparati per tempo ad affrontare lo shock rappresentato da un’eventuale rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Di conseguenza, invece di far blocco, è più probabile che i governi europei, come già nel caso della sua prima presidenza, si confrontino con Trump e la sua Amministrazione in ordine sparso (tra l’altro alcuni di essi non nascondono le loro affinità ideologiche col trumpismo), aumentando i rischi di frammentazione all’interno dell’Unione e di un ritorno dell’eurosclerosi.

L’Unione europea è impreparata ad affrontare – politicamente, economicamente e militarmente – una situazione internazionale caratterizzata da una crescente competizione tra grandi potenze. Una vittoria di Trump alle elezioni presidenziali americane di novembre, precipitando il disimpegno statunitense in Europa e nel contempo accrescendo le tensioni economiche e commerciali transatlantiche, renderebbe questa impreparazione ancora più evidente. I rapporti Letta e Draghi, così come altre proposte volte a dotare l’Unione delle competenze necessarie per far fronte alle sfide che ha di fronte, potrebbero mitigare questa impreparazione e rilanciare l’Unione. Tuttavia, nel breve periodo, per le ragioni sopra esposte, è difficile vedere come ci si possa districare da una situazione che sembra al più consentire una gestione dell’esistente, con eventualmente alcuni progressi localizzati (ma limitati). Per andare oltre, ci vorrebbero attori politici forti, supportati da un robusto mandato popolare e in grado di mobilitare il consenso attorno al progetto europeo, ma al momento nell’Unione questi attori sembrano essere in very short supply. Spero di sbagliarmi, ma il “nemico cassetto” è purtroppo vivo e vegeto e non sarà facile sconfiggerlo.