Dello stato della democrazia e della sua attuale crisi hanno parlato papa Francesco, a più riprese il presidente Mattarella, Ursula von der Leyen nel discorso programmatico per la rielezione al vertice della Commissione europea. Non è solo questione del funzionamento più o meno carente dei sistemi che si rifanno, pur in forme e con modalità diverse, al costituzionalismo così come si è evoluto dal modello liberale classico al modello che vi ha inglobato la dimensione sociale. Le difficoltà che ha incontrato e che incontra questo modo di organizzare lo spazio e la convivenza nelle società politiche sono note, discusse in varie sedi e dipendono in buona parte dall’evoluzione storica che ha coinvolto l’ambito geografico in cui il costituzionalismo è nato e si è sviluppato, cioè quello che normalmente si definisce “l’Occidente”.

L’aspetto inedito con cui si devono fare i conti è che da qualche decennio quel modello è considerato inaccettabile: ha perso la sua natura tutto sommato prescrittiva che ne faceva una componente essenziale della modernità. Si potrebbe obiettare che esso era già stato sfidato dai sistemi che, rifacendosi in modi diversi al marxismo, avevano ritenuto di proporsi come alternativi al paradigma costituzionale. Tuttavia, va subito precisato che quei sistemi, almeno nella versione che reclamava di esserne l’incarnazione più ortodossa, cioè nel regime sovietico, pretendevano di essere, coerentemente con la prospettiva di Marx, lo sviluppo compiuto e totale delle istanze che stavano alla base della rivoluzione costituzionale dell’Occidente, perché avendole separate dall’economia capitalista le aveva massimizzate nella loro capacità di “liberazione” dell’uomo (il che in definitiva doveva essere l’obiettivo dell’umanesimo occidentale da cui trae origine ultima il costituzionalismo).

Il crollo del sistema sovietico, l’ambiguità del sistema socialista cinese che sembrava essersi per tanti versi occidentalizzato, almeno nella gestione del sistema economico e nell’assunzione della rivoluzione tecnologica, avevano portato molti a concludere che il modello del costituzionalismo occidentale, ossia della liberal-democrazia, si fosse ormai affermato sbaragliando i suoi avversari, unico modello cui rivolgersi per rimanere nell’ambito della “modernità”. È nota la tesi di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, nel senso di esaurimento della capacità di sfida alternativa al quadro del costituzionalismo con le sue incarnazioni economiche e sociali.

Tuttavia la sfida mostrava ancora il suo volto, questa volta con le sembianze dell’estremismo islamico, un sistema culturale che non solo rifiutava il contesto dei valori dell’Occidente, ma che li combatteva tanto impedendo che essi si propagassero nelle terre storiche dell’insediamento di quella cultura, quanto mettendo in crisi la capacità di dominio dei Paesi che a essi si richiamavano sia con il ricorso al conflitto armato e alla guerra asimmetrica del terrorismo, sia, dove possibile, animando conflitti per così dire più tradizionali.

A interpretare questo quadro in buona parte nuovo aveva provveduto Samuel Huntington con la tesi, fortunata, della presenza di uno “scontro di civiltà”. Il mondo aveva perso il relativo equilibrio garantito dalla condivisione di un complesso di punti di riferimento dati per razionali e sconnessi da appartenenze culturali particolari ed era accaduto perché erano tornati in campo i riferimenti ad altre forme di elaborazione dell’organizzazione socio-culturale, le quali rifiutavano di far parte della koinè occidentale. Il riferimento più evidente era all’islamismo radicale, ma si iniziava a vedere il risorgere dell’antioccidentalismo slavo-bizantino, nonché altre forme di rivendicazione di modelli, alcuni più o meno frutto di invenzioni polemiche (culture sudamericane, culture africane), ma altri anche di storie molto complesse i cui “quarti di nobiltà” sono ardui da negare, come nel caso della cultura indiana e cinese.

Possiamo qui prescindere dal discutere degli infiniti problemi e delle aporie che pone l’utilizzo dello schema interpretativo dello scontro di civiltà. Vogliamo infatti richiamare l’attenzione su due elementi che stanno connotando la fase attuale della crisi della democrazia e che ispirano le riflessioni autorevoli da cui abbiamo preso le mosse: la resa crescente che è presente in molti settori della cultura occidentale alla tesi della dimensione del tutto relativa e priva di paradigmaticità del modello occidentale; il via libera che ciò ha dato alla ripresa di un confronto fra le nazioni su basi neo-imperiali.

Era senz’altro eccessivo dichiarare una superiorità assoluta e indiscutibile del modello occidentale che ha prodotto la democrazia come sistema di governo. È stata a lungo “esportata” in tutto il mondo che si è trovato sotto il dominio euro-americano con risultati controversi, per la semplice ragione che spesso si sono attuate le “formalità” del sistema (competizione elettorale, articolazione dei poteri fra parlamenti, governi, magistratura, qualche libertà di espressione per l’opinione pubblica) e si è realizzata l’assimilazione di alcuni modelli di way of life dal punto di vista dell’utilizzo delle tecnologie come da quello dei “consumi”, ma senza che si andasse oltre il formalismo per cui, giusto per spiegarci, le elezioni sono pesantemente manipolate, l’articolazione dei poteri rimane sulla carta, la pubblica opinione è limitata e controllata. Non si è tenuto conto che il sistema costituzionale è figlio di varie storie politiche nazionali, è supportato da itinerari di sviluppo e da condizioni essenziali di cultura, di vita sociale e di contesto economico, in assenza delle quali le istituzioni democratiche non possono vivere.

Un certo successo di alcune “esportazioni”, per esempio in India o in Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, ha fatto ritenere che il metodo fosse plausibile, ma vari fallimenti dopo inizi che potevano sembrare promettenti hanno costretto a rivedere queste convinzioni (si pensi alle ex colonie europee in Africa, dove al momento dell’indipendenza si erano instaurati sistemi politici sul modello occidentale, per arrivare poi al loro disseccamento).

Ci troviamo a fare i conti con una critica ai sistemi democratici che si sviluppa all’interno di quegli stessi Paesi che avrebbero dovuto avere l’orgoglio di avere testato il modello da quasi due secoli

Ciò che ha messo in crisi la tenuta del modello occidentale non è stato però semplicemente il successo limitato, e spesso l’insuccesso delle “esportazioni” che si sono tentate (anche con intenti manipolatori da parte dei Paesi esportatori che sono sovente stati davvero dei cattivi maestri). Oggi ci troviamo a fare i conti con una critica ai sistemi democratici, critica che si sviluppa all’interno di quegli stessi Paesi che avrebbero dovuto avere l’orgoglio di avere varato e testato ormai in quasi due secoli il modello. Non si tratta naturalmente di negare che l’attuale sviluppo delle democrazie occidentali conosca un momento critico per le difficoltà a gestire un contesto di partecipazione alla sovranità politica da parte del popolo in presenza di condizioni che hanno visto mutare alcune caratteristiche culturali, sociali ed economiche le quali avevano innervato il progresso del sistema. Si può iniziare richiamando il venir meno delle tradizionali reti che tenevano insieme il sistema (cultura diffusa, condivisione di un set di valori considerati fondanti, se non preminenza, almeno equilibrio fra il solidarismo e l’individualismo), per finire ricordando lo spaesamento dei cittadini di fronte alle incognite che pone una transizione storica di grande portata (ci limitiamo a ricordare la presenza di una rivoluzione tecnologica che ha inciso a fondo sul sistema di interpretazione e di comprensione della vita sociale).

Questo cambiamento ha prodotto in Occidente un tentativo di distacco da una parte non piccola della cultura rispetto al “valore” del sistema democratico e del sistema di organizzazione degli spazi politici ed economici che vi è connesso. Alla critica che altri sistemi culturali hanno avanzato contro il nostro modello, si è reagito sposandola e mostrandosi, per usare una metafora, più realisti del re. Il fenomeno della cosiddetta “cancel culture” è emblematico di una risposta paranoica a chi mette in luce debolezze nella nostra storia, politica e non solo: si è ritenuto che avesse senso cancellare la nostra storia perché non si è sviluppata secondo i canoni che si suppongono rappresentare oggi il punto di arrivo di una presunta “liberazione”.

Si tratta di un contesto che priva l’Occidente delle capacità di rielaborazione del suo modello, perché lo ritiene sbagliato sin dalle origini, senza per altro essere in grado di offrire risposte al vuoto che l’abbandono del modello genera, neppure veramente accettando i sistemi che sembrano venire dalle culture alternative a quella occidentale (pescare da esse questo o quel contenuto mitico-folkloristico impastando il tutto in una fusione senza logica non è un passo avanti per l’elaborazione di alternative, ma solo un passo ulteriore nella paranoia).

Conviene tenere conto che a fronte di questa crisi che lo scuote, l’Occidente non è in grado di dominare i casi di neo-imperialismo che si stanno sviluppando sfruttandola. Ci sono fenomeni molto evidenti come la ripresa dell’imperialismo russo che allarga le sue mire espansionistiche ormai con la chiara teorizzazione di una sua contrapposizione all’Occidente. Gli storici possono avvertirci che si riprende la tradizione di una competizione fra il mondo “romano” e il modo “slavo-bizantino”, ma non ci si deve impressionare troppo per queste spiegazioni: la realtà è che, come sempre accade, l’indebolimento di un sistema che ha per un secolo abbondante avuto un ruolo centrale ed egemonico nella storia genera in chi di quel dominio si è sentito parte marginale se non in alcuni casi vittima la volontà di trarne profitto.

I sistemi che abbiamo definito neo-imperiali non condividono le coordinate del costituzionalismo occidentale, soprattutto per la ragione che non prevedono la presenza di una volontà popolare che liberamente si forma nel quadro di un percorso storico comune, in cui tutti i “cittadini” hanno avuto modo non solo di condividere un complesso culturale come orientamento dell’azione politica, ma di essere coinvolti nelle reti di elaborazione delle scelte che si sono dovute prendere di volta in volta.

I sistemi neo-imperiali non condividono le coordinate del costituzionalismo occidentale, soprattutto perché non prevedono la presenza di una volontà popolare che liberamente si forma nel quadro di un percorso storico comune

Il quadro di base che connota questo campo di convivenza è stato e per tanti versi è ancora la “nazione”: una creazione culturale che tiene conto del confluire di componenti sociali plurali, le quali però erano venute omogeneizzandosi a volte anche attraverso esperienze drammatiche (guerre, crisi economiche e sociali). Gli imperi non hanno questo retroterra: sono composti di una pluralità di componenti a cui non è però consentito di confluire liberalmente in una storia comune, che non possono partecipare alla sua elaborazione, perché ciò è delegato al potere, dispotico, di una minoranza. Il collante in base al quale la minoranza dominante si impone è l’assioma che la massima espansione territoriale e di dominio genera “potenza” e la potenza permette un grande accumulo di ricchezza e di risorse che potrebbero anche, in teoria e assai poco in pratica, essere in piccola parte distribuite fra i sudditi dell’impero, mentre invece la maggior parte rimane nel cuore del sistema imperiale che in questo modo si perpetua e cresce (ovviamente così la minoranza dominante alimenta la sua ricchezza, ma di questo non si parla).

Non tragga in inganno il fatto che i sistemi neo-imperiali amano rilanciare il concetto di nazione. Si tratta dello sfruttamento di un retaggio storico della modernità seguita alle rivoluzioni sette-ottocentesche, per cui è la “nazione” il soggetto dedicato e legittimato a costruire al tempo stesso la identità culturale che fonda il potere e la sua legittimazione. In realtà i nuovi imperi elevano a loro identità nazionale quella della minoranza che detiene il controllo del sistema e sulla base di quella giustificano il dominio della minoranza e legittimano la lotta, anche armata, che presentano come inevitabile in un contesto di nazioni in competizione radicale fra loro.

Le tentazioni neo-imperiali sono in questa fase molte. Se sono sotto i nostri occhi quelle di Russia e Cina, possiamo menzionare quelle, certo su scala più ridotta, dell’India, della Turchia, dell’Iran. In questi casi si tratta di antichi imperi storici (indù, ottomano, persiano) che erano stati dati per esauriti senza possibilità di ritorno. Accanto possiamo trovare fenomeni di rilancio di antiche formazioni, come è il caso del califfato arabo che ha conosciuto negli ultimi decenni reincarnazioni terroristiche improbabili, ma che muove più di un empito nell’universo islamico (incluso qualche gruppo al governo in alcuni Stati). In complesso tutte queste dinamiche sembrano trovare orecchie sensibili in molti Paesi che si considerano, per molti aspetti non a torto, vittime di un lungo sfruttamento da parte dei Paesi che furono egemoni nel dettare le forme di controllo degli equilibri internazionali. L’esempio che si fa in questi casi è quello dei cosiddetti “Brics”, che, pur sotto un tentativo di controllo da parte di Russia e Cina, non appartengono di loro a sistemi neo-imperiali, ma che si muovono nell’ottica di uscire dal quadro della contestata egemonia occidentale.

Questo contesto ha portato alla ripresa di un quadro di competizione aggressiva e di messa in discussione della “geografia” che era stata disegnata sul presupposto del carattere prioritario del modello di democrazia occidentale, seguendo la quale, sia pure con tutti i compromessi delle imprese umane, si eran disegnati i confini e le identità tanto territoriali quanto storico-culturali della comunità degli Stati. Ora la riapertura della sfida alla paradigmaticità del modello democratico (qualcosa di più complesso del solo versante politico istituzionale), che ha assunto caratteri di scontro armato fra poteri, oltre che di insorgenze di conflitti asimmetrici di stampo terroristico, si sta svolgendo mentre il modello occidentale sotto attacco vede indebolirsi, anche in modo rilevante, il supporto di una cultura diffusa e condivisa che lo considerava il miglior sistema di gestione, razionale, della convivenza politica.

La difesa della conquista storica del costituzionalismo liberal-democratico non può essere efficace se rimane soltanto nelle mani dei poteri di governo degli Stati occidentali, che non sono più in grado di gestire e promuovere la koinè culturale che ne costituiva il patrimonio fondante e che pensano, si fa per dire, che tutto possa essere risolto a livello “burocratico”, cioè come un confrontarsi di regole e proclami, di controlli formalistici in cui si tutelano tutti gli individualismi possibili senza alcuno sforzo di portarli a essere inclusi nell’idem sentire de re publica.

È necessario rilanciare una riflessione coraggiosa sul modello della democrazia costituzionale così come si è sviluppata negli ultimi due secoli: non per farne un idolo a cui bruciare inutili incensi, ma per riproporne e ricrearne le capacità creative che contiene e che sono in grado di farci affrontare con successo il complesso tornante storico che abbiamo davanti. Lo facciamo perché non crediamo né ai miti delle democrazie illiberali, né a quelli dei neo-imperialismi di vario colore.