Il ministero dei Beni culturali (Mibact) ha da pochi giorni chiuso il bando per il “conseguimento della qualifica professionale di restauratore e collaboratore restauratore di beni culturali”. Un bando che, se doveva finalmente distinguere tra chi è restauratore e chi no, ha completamente fallito il proprio scopo, rivelandosi una triste farsa che conferma una volta di più l’immensa confusione e il ritardo culturale che da troppi anni gravano sul mondo del restauro e sul Mibact. Un disastro che ci arriva (con molti altri) sull’onda lunga d’un ministero nato morto, cioè nello stesso 1975 anno della sua fondazione, come subito aveva visto Sabino Cassese, scrivendo che «il ministero è una scatola vuota. Il provvedimento della sua costituzione non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela».
Ma restando al bando, un disastro che non è tanto attestato dagli inopinati manufatti per il cui restauro si può essere definiti restauratori, ad esempio il “batticulo”, il “dilatatore vaginale” o le “case a schiera” (e dalla presenza nel bando di questa curiosa categoria di restauro alcuni hanno malignamente desunto che tra gli accreditati ci saranno perciò molti dei muratori che lavorano nelle imprese edili che incredibilmente eseguono, con tutti i crismi di legge, una parte cospicua dei lavori di restauro in Italia). Né quel disastro si vede dalle confuse valutazioni di merito sull’esperienza acquisita nel tempo come restauratore indicate nel bando, con colleghe di quarant’anni che ne possono dimostrare altrettanti di lavoro, il che significa che per il Mibact si possono far restauri già in culla. Nemmeno il solito disastro emerge dall’assurda divisione ex lege dell’unica materia del restauro in ben dodici “Settori di competenza”, facendo di questo lavoro una mera attività artigianale.
Il disastro si deve invece a un fatto strutturale. Si deve cioè all’allegro quanto imperterrito proseguire del Mibact (adesso accompagnato dall’Università) a seguire pedissequamente i dettami sul restauro illustrati da Giulio Carlo Argan allo storico convegno dei soprintendenti tenuto a Roma nel 1938. E cioè «il restauro dovrà essere esercitato da tecnici specializzati continuamente guidati e controllati da studiosi». Quello che continua a valere ancora oggi, 77 anni dopo, con la schizofrenica divisione dei lavori tra “il braccio e la mente”, dove il braccio è chi materialmente realizza i restauri, il restauratore, mentre la mente è – ex lege – chi mai ha condotto restauri con le proprie mani, ma lo stesso li guida nel nome d’una superiore capacità nel giudizio estetico, cioè il soprintendente storico dell’arte (antica e moderna, o dell’architettura, dal direttore dell’Istituto centrale del restauro in giù) di turno. Da qui il sempre più stanco (e ridicolo) rituale del soprintendente che non avendo mai restaurato un’opera d’arte con le proprie mani ha del problema una percezione inevitabilmente dilettantesca, ma che lo stesso si deve recare ex lege nello studio del restauratore o nel cantiere in cui questi lavora per validare sul piano estetico, quindi metafisico, il suo lavoro, dicendogli «quella lacuna del dipinto fammela più calda, ossia più fredda, quest’altra invece reintegrala a tratteggio, ossia a puntini». Una direzione lavori condotta a occhio la cui approssimazione inevitabilmente si riflette sui corsi di formazione per restauratori da poco accesi in alcune università italiane e anch’essi guidati, per inevitabile simmetria, da figure che non hanno mai eseguito con le proprie mani un restauro, e magari nemmeno docenti di quella materia, magari anche bocciati ai concorsi per accedere a ruoli accademici superiori, il che spiega come mai in un corso di formazione per restauratori di tele e tavole (dato vero) un terzo e forse più degli insegnamenti teorici possa essere dedicato alle pietre, perfino insegnando agli allievi (si parla sempre di tele e tavole) la teoria del restauro architettonico; e ciò nella completa indifferenza di Cun, Miur e Mibact.
Chiudo con alcune domande al ministro Franceschini. Come giustifica, signor ministro, che nonostante si conosca da mezzo secolo la “tecnica” (Heidegger) con cui condurre una tutela razionale, coerente e finalmente efficace del patrimonio artistico italiano, rendendo così pieno omaggio all’articolo 9 della Costituzione (e anche dando finalmente risposta all’innovazione delle politiche di tutela che chiedeva Cassese nel 1975), ‒ tecnica che è la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all'ambiente in cui i restauratori avrebbero una parte fondamentale ‒ nessuno l’ha finora attuata? Come mai nessuno ha dato corso a quella tecnica nonostante i suoi ambiti organizzativi, tecnico-scientifici e formali fossero stati definiti – appunto mezzo secolo fa – con ogni possibile precisione da Giovanni Urbani? E ancora, come mai nessuno vi ha dato corso nonostante la conservazione programmata sia uno dei fondamenti dell’articolo 29 del Codice del 2004?
E di nuovo chiedo: quest’ennesima prova del gravissimo ritardo culturale del Mibact si deve al suo essere inerme rispetto alla cieca e sorda, ma non muta, opposizione a ogni innovazione tecnico-scientifica del settore da parte di sindacati, Corte dei conti, alta burocrazia ministeriale e soprattutto corporazioni dei soprintendenti e dei professori universitari che i futuri soprintendenti formano, come mai va dimenticato? O quell’immenso ritardo culturale si deve invece al fidare, che davvero si possa far tutela con direttori dei lavori di restauro e di conservazione specializzati in metafisici giudizi estetici e con restauratori di batticuli, divaricatori vaginali e case a schiera che hanno iniziato a esser tali già in culla? O si deve invece al credere che si possa far tutela con laureati nel restauro di tele e tavole a cui nelle università vengono insegnati a cosa si debbano i fenomeni di degrado delle pietre ovvero un’inesistente teoria del restauro delle architetture?
Non crede, signor ministro, che significhi qualcosa se, rispetto alla sempre più evidente stasi degli studi storico-artistici, esponenziale è stata invece in questi ultimi decenni la crescita culturale del settore del restauro perché diretta figlia della creatività tecnico-scientifica del nostro tempo?
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