In questo 2023 cadono trent'anni esatti di tentativi di sistema maggioritario nelle elezioni politiche in Italia. Per un lungo periodo, quasi mezzo secolo, tra il 1946 e il 1993, il nostro sistema elettorale per l’elezione dei rappresentanti parlamentari è stato improntato a un sostanziale modello proporzionale: tot voti, tot seggi.
Solo nel 1953, con la legge Scelba, o “legge truffa” secondo l’espressione che fu usata nelle furiose polemiche dell’epoca, ci fu un tentativo di introdurre un forte premio di maggioranza alla coalizione che fosse riuscita a superare il 50% dei voti. Ma quel meccanismo, che premiava la lista vincente col 65% dei seggi, non scattò per un soffio. Il Centro democratico (Democrazia cristiana e alleati) arrivò solo al 49,8% e l’anno dopo la legge fu abrogata.
Nel 1993, si decise, con la legge Mattarella, di abbandonare il sistema proporzionale a favore di un sistema misto, a turno unico, maggioritario per il 75% dei seggi e proporzionale per il restante 25%, con soglia di sbarramento del 4%. Voleva essere l’inizio di una nuova era, un tentativo di passare dalla Prima alla Seconda Repubblica, motivato da due principali obiettivi: promuovere la “governabilità” e la stabilità dei governi, rendere più efficace l’attività legislativa del Parlamento.
La legge Mattarella, approvata il 4 agosto 1993, era il riflesso diretto dell’esito referendario del 18 aprile dello stesso anno, in cui, con un’affluenza record del 77% e quasi l’83% di “sì”, si abrogava per il Senato il sistema proporzionale in favore del maggioritario uninominale. Si noti che quel referendum ha interrotto momentaneamente il trend discendente della partecipazione elettorale, portando alle urne qualcosa come 10 milioni di cittadini in più rispetto a quanto ci si sarebbe potuti aspettare in base all’andamento degli ultimi 20 anni e delle relative 8 date referendarie (Fig. 1).
Un risultato così rilevante, dal punto di vista della partecipazione civile, sarà ripetuto solo nel 2011, con il referendum sull’“acqua bene comune” in epoca ormai, in termini di trend, ampiamente sotto la soglia di validità del 50%.
Le speranze di stabilità ed efficacia legislativa, dopo “Tangentopoli”, sembrarono aprire una nuova e positiva stagione per il sistema politico italiano
In quel lontano 1993, le speranze di governabilità, di stabilità e di efficacia legislativa, in un’opinione pubblica impressionata dalle indagini avviate l’anno precedente sullo scandalo “Tangentopoli”, sembrarono aprire una nuova e positiva stagione per il sistema politico italiano.
Il “Mattarellum” (come lo chiamò Giovanni Sartori, che mise così il copyright su tutti i nickname delle leggi elettorali italiane) durò solo 3 legislature: 1994, 1996, 2001. Seguì, nel 2005, il “Porcellum”, in vigore nelle elezioni del 2006, 2008 e 2013, e infine, dal 2017, il “Rosatellum”, utilizzato nelle ultime due tornate elettorali, 2018 e 2022.
Dunque, ben tre tentativi di maggioritario, tutti diversi, a parte la caratteristica comune del turno unico: in particolare, il Porcellum, in analogia con la vecchia legge Scelba, era un proporzionale con premio di maggioranza per arrivare al 54% dei seggi (ma con diversi profili di incostituzionalità, dichiarati dalla Corte nel 2014); il Rosatellum, tuttora in vigore, assomiglia invece al Mattarellum ma con mix invertito, poiché la componente maggioritaria si ferma al 37%, contro il 63% di proporzionale più una debole soglia di sbarramento al 3%.
Da notare che una prima bozza del Rosatellum, poi sensibilmente annacquata, prevedeva un mix 50-50 con soglia di sbarramento al 5%. Purtroppo, entrambi gli obiettivi delle riforme in senso maggioritario sono stati mancati (Tab. 1). Infatti, dal punto di vista della governabilità, nei 45 anni di proporzionale ci sono stati 6 scioglimenti anticipati delle Camere contro 3 nel trentennio maggioritario; il numero di legislature è stato rispettivamente di 11 e 7, il che significa circa 1,2 legislature per quinquennio sotto entrambi i sistemi; la durata media dei governi è solo lievemente aumentata, da 1 anno a 1,7 anni, sempre ben al di sotto dei 5 anni ideali; in termini di efficacia legislativa, non si è visto alcun progresso, al punto che le crescenti difficoltà dell’attività parlamentare hanno contribuito a giustificare il passaggio, sia pure surrettizio, dal classico sistema dei tre poteri indipendenti (legislativo, esecutivo, giudiziario) a un sistema meno articolato, in cui l’esecutivo, attraverso lo strumento della decretazione e delle leggi d’iniziativa governativa, si è fuso col potere legislativo, esautorando di fatto il ruolo autonomo del Parlamento. Per dare un’idea, negli ultimi anni, considerando le leggi approvate, quelle di iniziativa governativa sono state assolutamente preponderanti: 74% nella XVII legislatura, 78% nella XVIII, appena conclusa (altri dati si trovano qui).
Ma guardiamo al nocciolo essenziale: quanto si discosta, a posteriori, la distribuzione dei seggi rispetto alla distribuzione dei voti?
Un modo semplice di fare ordine in questo ginepraio di complicatissime norme elettorali è puntare al nocciolo essenziale: quanto si discosta, a posteriori, la distribuzione dei seggi rispetto alla distribuzione dei voti?
Per dare un’idea, si confronti la distribuzione voti-seggi del 1992, ultime elezioni col (avrebbe detto Sartori) “proporzionellum” con la distribuzione voti-seggi del 1994, quando entrò in vigore il Mattarellum. Nel primo caso, il primo partito, col 30% dei voti ottenne il 33% dei seggi (+3 punti); nel secondo caso il primo partito passò dal 21% dei voti al 28% dei seggi (+7 punti) mentre la sua coalizione passò dal 43% al 58% (+15 punti: Fig. 2).
Chiaramente, tutti i sistemi maggioritari hanno premiato le maggiori coalizioni, con premi massimi tra i 5 e i 25 punti (sperimentati entrambi col Porcellum). Tuttavia, come si è visto, questo rafforzamento in termini di seggi della coalizione vincente non ha comportato, se non marginalmente, né il rafforzamento dell’esecutivo né quello del legislativo.
Il sospetto per il fallimento delle riforme elettorali ricade, inevitabilmente, sull’intrinseca eterogeneità delle coalizioni elettorali, formate da partiti autonomi, tra loro diversi e in competizione più o meno nascosta.
Un modo per verificare questa ipotesi è il ricorso a un indicatore sintetico, preso in prestito dalla teoria economica della concorrenza, e noto come indice di Herfindahl-Hirschman (Hhi, di solito applicato alle quote di mercato), che misura il grado di concentrazione (tra un minimo di 1/N e un massimo di 1) nella distribuzione tra gli N competitor (qui i partiti o coalizioni). Il suo reciproco, 1/Hhi, variabile tra 1 e N, è una misura del “numero effettivo di partiti” (Nep) implicito nella distribuzione dei voti o dei seggi. Più è concentrata tale distribuzione, più basso è tale “numero effettivo” (per approfondire).
Come mostra la Fig. 3, negli anni del maggioritario, mentre il numero delle coalizioni effettive ha sempre oscillato tra 2 e 3, il numero effettivo dei partiti è stato massimo nella XIII Legislatura, che vide alternarsi ben 4 governi (Prodi, D’Alema 1 e 2, Amato) e minimo nella XVI (governi Berlusconi e Monti). La correlazione tra numero effettivo di partiti e durata media dei governi risulta elevata e negativa (-64%) a indicare un probabile effetto perverso della frammentazione partitica sulla reale capacità di governo della maggioranza.
Da questo punto di vista, le forme di maggioritario sperimentate (tutte a turno unico e con basse soglie di sbarramento) hanno tutte mancato di aggredire l’elemento-chiave della governabilità, lasciando che il numero effettivo di partiti salisse, dal 2013 a oggi, senza interruzioni.
Una legge elettorale tutta maggioritaria, avrebbe potuto invertire la tendenza a un ruolo crescente (e autonomo) dei partiti dentro le coalizioni?
A riprova di ciò, ci si può chiedere se una legge elettorale tutta maggioritaria, avrebbe potuto invertire la tendenza a un ruolo crescente (e autonomo) dei partiti dentro le coalizioni. Cosa sarebbe successo con un Rosatellum tutto maggioritario in cui i seggi sono ripartiti solo con l’uninominale a turno unico? Con tutti i limiti di un simile esercizio controfattuale, il risultato mostra solo un rallentamento del crescente ruolo dei partiti: il Nep arriva a 3,9 nella XVIII legislatura (contro il dato storico a 4,3) e a 4,3 nella XIX legislatura (invece di 5,5). I risultati della simulazione sembrano indicare nell’eterogeneità delle coalizioni il male, neppure tanto oscuro, del sistema politico italiano. L’indicazione che sembra emergere è che, in un sistema multipartitico come quello italiano, la stabilità dell’esecutivo e l’efficienza del legislativo richiedono sia un’elevata soglia di sbarramento che disincentivi la frammentazione sia un ballottaggio al secondo turno che premi la lista, tre le due più votate, complessivamente più convincente.
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