“Cinque donne del sud sono morte perché lavoravano in nero in uno scantinato senza sicurezza. Non è una tragica fatalità, è una morte annunciata. Queste donne lavoravano senza dignità. Lavoravano nelle stesse condizioni in cui lavorano in paesi in via di sviluppo e dove non esiste la democrazia“. Sono le parole del comunicato del comitato nazionale “Se non ora quando”. Sono parole condivisibili. Ma bastano? Non occorrerebbe fare di più, sia sul piano simbolico sia su quello pratico? Benché sia pienamente consapevole dei limiti degli scioperi e delle manifestazioni, non posso evitare di chiedermi perché le operaie morte a Barletta sotto le rovine di un edificio che, crollando, ha illuminato la loro doppia condizione di sfruttate e di vittime dell’incuria pubblica e privata, di amministratori ciechi e di palazzinari incompetenti e voraci, non abbiano sollecitato una più visibile e forte denuncia da parte del movimento delle donne. È fresca la memoria della grande manifestazione delle donne del 13 febbraio scorso contro la riduzione delle donne a corpi da vedere e usare per il piacere e il voyeurismo maschile. Ma la morte di quattro operaie sfruttate, e più in generale la condizione femminile drammaticamente illuminata dalla tragedia di Barletta, non riescono a provocare dal movimento delle donne qualche cosa di più di un duro comunicato. Eppure è una condizione molto diffusa, soprattutto, anche se non solo, nel Mezzogiorno, dove le donne, ancora più degli uomini, sono strette tra l’alternativa di nessun lavoro e un lavoro insieme pesante, poco pagato e in condizioni ampiamente al di sotto di ogni elementare norma di sicurezza. Una alternativa che può far pensare a loro, prima ancora che a politici che dovrebbero almeno avere il buon gusto di tacere, che ogni lavoro e paga è meglio della mancanza di lavoro. Come se chi è povero, specie se donna, non avesse diritto alla dignità di un compenso adeguato e alla salvaguardia della salute e chi dà loro lavoro sia una sorta di benefattore.
Certo, non ci sono solo donne nell’esercito di chi lavora in queste condizioni. Ci sono anche molti bambini e adolescenti. Non è neppure una novità causata dalla crisi economica. Piuttosto una esperienza costante, che ha accompagnato tutta l’industrializzazione italiana, adattandosi ai mutamenti produttivi e di mercato del lavoro. Solo che si tende a dimenticarsela, in attesa della tragedia successiva. Si può giustamente argomentare che non dovrebbero essere solo le donne a preoccuparsi e protestare per questi fenomeni. Ma perché non anche, se non soprattutto, le donne? Trasversalità – una caratteristica cui il nuovo movimento delle donne tiene particolarmente – non può significare solo, e forse neppure prioritariamente, ascoltarsi e rispettarsi reciprocamente tra donne di orientamenti culturali e politici diversi. Dovrebbe significare innanzitutto la presa in considerazione delle condizioni, opzioni, gradi di libertà disponibili a donne in situazioni sociali molto differenti, e spesso disuguali, tra loro.
Nel 1851, negli Stati Uniti, a una delle prime conferenze femministe, una donna nera, Sojourner Truth, non riconoscendosi nelle analisi e nell’agenda del movimento che stava formandosi, si rivolse alle presenti chiedendo: “non sono una donna anch’io?”. Quella domanda assilla da allora i movimenti delle donne in tutto il mondo, ricevendo risposte diverse. Credo che le operaie decedute a Barletta, e tutte le altre che sono nelle loro condizioni, ce la stiano rivolgendo ora.
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