Come in ogni crisi che si rispetti, la pandemia da Covid-19 ha fatto emergere le numerose contraddizioni del momento storico in cui si è sviluppata.

Difficile trovare un fronte – sia esso culturale, economico, filosofico, scientifico – nel quale molte delle certezze considerate immutabili non siano state scalfite e messe in discussione. Non tanto perché in molti non se ne fossero accorti precedentemente, quanto piuttosto perché una loro seria critica implicava, soprattutto in ambito socio-economico, cambiamenti di ordine politico di natura epocale.

Guardando al tema dal punto di vista del mercato del lavoro, della sua struttura e dei suoi attori, la pandemia è giunta in una fase storica nella quale le economie occidentali non hanno ancora saputo individuare un paradigma tanto «semplice» e olistico quanto quello fordista che ha dominato il mondo fino agli anni Settanta, con una coda che ancora oggi resta ampiamente presente in molti Paesi e in molti settori. Quando ci si trova a elencare le criticità del lavoro oggi, infatti, non di rado si finisce per ricomprenderle all’interno della generica categoria del post-fordismo, il cui nome tradisce l’incapacità di rappresentare un paradigma autonomo rimanendo quindi ben piantati all’interno della crisi di quello che l’ha preceduto, come notavano già Ulrich Beck e Anthony Giddens sul finire degli anni Ottanta. E a ben vedere la pandemia non ha generato nuove crisi, ha invece acuito e posto sotto gli occhi di tutti, anche di chi non se ne occupava per mestiere, criticità che il mercato del lavoro italiano (in buona compagnia) conosceva ormai da almeno quarant’anni.

Prendere in analisi queste criticità può dunque essere utile non solo per capire come la fase che seguirà l’emergenza pandemica potrebbe aiutarci a ripensare alcuni pilastri del mercato del lavoro dalle fondamenta ormai logore, ma anche per ricostruire il perché di questo logoramento. Quando parliamo di fordismo e della sua crisi il riferimento non è tanto alle modalità di lavoro introdotte da Henry Ford con il supporto di F.W. Taylor – come la catena di montaggio, la parcellizzazione delle mansioni, la creazione del modello organizzativo gerarchico tipico della fabbrica ecc. Il riferimento piuttosto è a quel «regime di accumulazione», così come fu definito dai teorici della Scuola della regolazione che si venne a creare in conseguenza alle politiche produttive e salariali dell’azienda di Dearborn, che avevano come obiettivo quello di creare una circolarità tra produzione e consumo alimentata dalla politica degli alti salari, certo possibili in virtù dei cambiamenti organizzativi introdotti, tali da consentire al produttore (l’operaio) di acquistare nel medio termine il bene da lui prodotto (l’automobile). Da qui l’affermarsi, in Italia, di forme di protezione del lavoro a tempo indeterminato che erano anche una tutela per le imprese da improvvisi turnover, la netta distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e soprattutto il complesso sistema delle politiche del lavoro.

Politiche che, in un contesto simile, si sono sviluppate principalmente in chiave passiva, all’interno di quel «compromesso storico» di cui ha scritto Wolfgang Streeck tra capitale e lavoro, nel quale il secondo, per mezzo dei suoi rappresentanti, accettava tutte le conseguenze della subordinazione taylorista in cambio della tutela garantita dal salario costante, rafforzato dall’introduzione della contrattazione collettiva. Parte integrante di questo compromesso, che risponde anche alla logica del contro-movimento della società nei confronti del mercato descritta da Karl Polanyi, è quella forma di tutela rappresentata dagli ammortizzatori sociali che intervengono nel caso di una crisi di mercato che non consenta più alle imprese di garantire la continuità di reddito dei lavoratori dipendenti.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 4/20, pp. 613-620. Il fascicolo è acquistabile qui]