In questo periodo abbiamo assistito a un grande esperimento sociale. Di fronte all’emergenza sanitaria e alle misure di lockdown, in poco tempo e senza preavviso molti lavoratori si sono ritrovati a lavorare da remoto, o meglio in smart-working emergenziale. Sebbene, infatti, il lavoro agile nel nostro Paese fosse già normato dal 2017 (l. 81/2017), solo un numero minoritario di lavoratori utilizzava questo istituto prima del periodo pandemico. Con il lockdown si è passati dall'1,2% dei lavoratori dipendenti interessati a circa un terzo. Adesso che si sta tornando alla normalità ci si interroga su quanto resterà di questa esperienza. Avrà davvero aperto la strada in molte aziende che prima guardavano con sospetto al lavoro da remoto? Oppure si ritornerà velocemente ai modi più tradizionali di lavorare e di gestire e controllare il lavoro?
È molto difficile fare previsioni in questo momento, ma analizzare come è stato vissuto il lavoro da remoto dalle persone che si sono trovate a doverlo utilizzare, volenti o nolenti, durante lo scorso anno e mezzo, è essenziale per capire quali siano le sue potenzialità e i suoi limiti, al fine di progettare al meglio il suo utilizzo nel prossimo futuro.
Durante il primo lockdown abbiamo svolto 200 interviste in profondità, mentre nella primavera del 2021 abbiamo condotto una survey (con circa 900 rispondenti) per capire come i lavoratori stavano vivendo il lavoro da remoto. A entrambi i gruppi di persone abbiamo chiesto se avrebbero voluto continuare a lavorare da remoto, anche una volta usciti dall’emergenza. Tra coloro che hanno risposto alla survey tra marzo e maggio 2021, in un periodo di parziale ripresa delle attività, in cui il lavoro da remoto non era più necessariamente cinque giorni su cinque ma poteva essere alternato a delle giornate in ufficio (e i figli piccoli, se presenti, potevano frequentare la scuola in presenza), la stragrande maggioranza ha espresso il desiderio di poter continuare almeno in parte a lavorare a distanza. La metà del campione ha dichiarato di volerlo fare per qualche giorno a settimana e quasi un quarto addirittura voleva lavorare da remoto per la maggior parte del tempo. Solo il 6% pare aver avuto un’esperienza completamente negativa e si augurava di non dover più lavorare da remoto.
La valutazione parzialmente positiva del lavoro da remoto emerge chiaramente anche dalle interviste svolte tra maggio e giugno 2020, mentre si stava concludendo il primo periodo di lockdown, in un momento in cui, data la durezza delle norme che limitavano gli spostamenti e le relazioni sociali in Lombardia, l’esperienza del lavoro da casa non era sicuramente stata facile (e neppure molto comparabile a una condizione di lavoro da remoto in tempi non emergenziali). Eppure anche allora il 61% ha dichiarato che, una volta conclusa l’emergenza, avrebbe voluto continuare a lavorare da remoto qualche giorno a settimana.
La possibilità di lavorare da remoto sarà sicuramente un tema importante nella definizione dei contratti di assunzione dei prossimi anni. Se prima veniva spesso trattato come un corollario, se presente, o come una possibilità che avrebbe potuto trovare applicazione, è prevedibile che divenga invece un aspetto a cui i lavoratori, forse ancor prima delle aziende, faranno attenzione valutando le opportunità di impiego. Più di un terzo dei nostri intervistati ha dichiarato, ad esempio, che non accetterebbe volentieri un’offerta di lavoro «che, a parità di salario e di ruolo, esclude la possibilità di smart-working» mentre, dall’altra parte, circa due terzi accetterebbe volentieri una proposta che prevede il 75% del tempo di lavoro svolto da remoto.
Il 62,5% dichiara che con lo smart working il carico di lavoro è aumentato (e solo l’8,1% dice che è diminuito). Questo perché spesso la mancanza di una suddivisione spaziale tra lavoro e vita privata fa sì che il primo invada la seconda
Ma a quali condizioni si è svolto il lavoro da remoto durante la pandemia? Con quali vantaggi e quali costi per i lavoratori? Lavorare a distanza offre indubbi vantaggi in termini di autonomia nella gestione del tempo di lavoro. Quando le persone non sono costrette a seguire orari rigidi, infatti, possono modulare l’attività lavorativa in funzione delle proprie esigenze, risparmiando sui costi di spostamento casa-lavoro e conciliando meglio necessità di lavoro e personali/famigliari. Non a caso tra le parole più frequentemente associate al lavoro da remoto dai nostri intervistati c’è «flessibilità», «libertà» e «comodità». Ma allo stesso tempo il 62,5% dichiara che con lo smart-working il carico di lavoro è aumentato (e solo l’8,1% dice che è diminuito). Questo perché spesso la mancanza di una suddivisione spaziale tra lavoro e vita privata fa sì che il primo invada la seconda. Il computer acceso sul tavolo della cucina porta a controllare la posta anche mentre si sta preparando la cena o rende quasi normale rispondere a richieste di colleghi e superiori dopo cena mentre si è seduti sul divano. Molti intervistati ci hanno detto che è una questione di «autodisciplina», di predisposizione personale a mantenere separati i due ambiti, ma in realtà non si tratta solo di questo. I tempi e i ritmi di lavoro dipendono anche dalle richieste di colleghi e superiori e dalla possibilità di «disconnettersi» che deve però essere esplicitamente riconosciuta e soprattutto non ostracizzata nell’ambiente lavorativo. I lavoratori devono inoltre prendere consapevolezza degli effetti negativi di una eccessiva sovrapposizione tra tempi di lavoro e vita privata, come della necessità di fare delle pause durante la giornata lavorativa, quando queste non sono più dettate dall’organizzazione aziendale come avviene nel luogo di lavoro. È necessario distinguere, infatti, tra la «porosità dei tempi» che porta a sovrapporre i tempi di lavoro e quelli della vita privata con effetti negativi, dalla flessibilità del tempo di lavoro che invece permette di conciliare meglio sfera lavorativa e sfera privata. Fondamentale, inoltre, che le imprese riconoscano l’importanza del «recovering time», che non deve essere invaso dal lavoro, neppure per brevi intervalli, per avere un effetto benefico in termini di riposo celebrale e di benessere individuale, entrambi elementi essenziali per avere buoni livelli di produttività sul lavoro.
Oltre alla dimensione del tempo, anche quella dello spazio è di importanza cruciale. Circa la metà dei nostri intervistati presso la propria abitazione non disponeva di uno spazio da dedicare esclusivamente al lavoro per cui ha dovuto utilizzare una stanza comune, come il soggiorno o la cucina, o un ambiente condiviso con altre persone. Come ci ha spiegato una nostra intervistata: «Gli spazi sono quelli che sono e quindi diventa un “dove mangi lavori e dove lavori mangi”». A questo si aggiunge la difficoltà di spostare frequentemente i propri strumenti di lavoro: circa un terzo degli intervistati si è trovato a doversi spostare più volte nel corso della giornata, liberando il tavolo della cucina quando gli altri membri della famiglia dovevano pranzare o chiudendosi nello sgabuzzino per evitare interruzioni. Questa difficoltà è stata sentita in maniera più forte dalle donne che non dagli uomini, perché questi ultimi – grazie a un maggior riconoscimento del proprio ruolo lavorativo all’interno delle coppie – possono usufruire più spesso di uno spazio a loro uso esclusivo.
La pandemia ha costretto ad alcuni disagi, da tenere in considerazione per poter progettare al meglio la futura organizzazione del lavoro. Il passaggio al lavoro da remoto ha infatti un effetto preoccupante di amplificazione delle diseguaglianze legate alla condizione abitativa
Nonostante ciò, le difficoltà connesse all’uso degli spazi abitativi venivano spesso minimizzate dai nostri intervistati, in quanto erano assunte come un dato di fatto, come un vincolo di contesto cui essi facevano fronte con strategie di adattamento spesso estremamente creative. C’è chi si è rifugiato a fare una call di lavoro sulle scale condominiali, chi in solaio o in bagno. Ovviamente la situazione emergenziale ha portato ad accettare alcuni disagi nella consapevolezza che erano transitori, ma è fondamentale tenerli in considerazione per poter progettare al meglio l’organizzazione del lavoro da remoto in situazioni di normalità. Il passaggio al lavoro da remoto ha un effetto preoccupante di amplificazione delle diseguaglianze legate alla condizione abitativa e alla disponibilità di spazi e strumenti adeguati a svolgere l’attività lavorativa dalla propria abitazione, che non potranno essere dimenticati neppure nel prossimo futuro.
Se questa esperienza deve insegnare qualcosa sul futuro del lavoro, i risultati della ricerca – seppur complessi e non unidirezionali – sembrano individuare una preferenza dei lavoratori verso lo svolgimento di alcune parti del loro lavoro in remoto, alternato però a lunghi momenti di presenza. Dal questo punto di vista però occorrerebbe una forte riorganizzazione del lavoro e del processo lavorativo, prevedendo momenti di presenza per le fasi di lavoro che richiedono maggiore interazione, alternati ad alcune giornate in remoto, altrimenti la sola introduzione di alcune giornate di smart-working potrebbe far prevalere gli elementi negativi sperimentati durante la pandemia. Rispetto al periodo emergenziale occorre regolamentare i momenti di lavoro e di pausa e soprattutto il numero complessivo delle ore lavorate e il diritto alla disconnessione. Importante, inoltre, aumentare la capacità di pianificazione dei datori di lavoro che, nell’eventualità futura di un’alternanza tra lavoro in remoto e lavoro in presenza, diviene fondamentale.
Alcune ricerche realizzate in paesi di precoce introduzione del lavoro da remoto, sottolineano l’importanza di un training per i lavoratori in remoto non solo sull’impiego degli apparati tecnologici, ma anche sugli aspetti sociali e psicologici che ne derivano. Inoltre, in Italia per i lavoratori dipendenti è importante pensare a percorsi formativi mirati a insegnare come autogestire il tempo.
I supporti tecnologici potrebbero ora essere forniti dalle imprese, così come la fornitura di attrezzature che permettano un’adeguata ergonomia anche da casa (ad esempio sedie da ufficio). La tematica dello spazio potrebbe ricollegarsi a quella dei co-working, su cui non abbiamo modo di soffermarci in questa sede.
Questi punti potrebbero essere portati al centro dell’attenzione di un dibattito scientifico, della contrattazione collettiva che nel periodo emergenziale è stata esclusa data l’eccezionalità della situazione e delle politiche di gestione del personale da parte delle imprese, come sta avvenendo, per ora solo in alcuni casi virtuosi.
[Per maggiori dettagli si vedano i contributi nel volume curato da Marco Peruzzi, Devi Sacchetto (a cura di), Il lavoro da remoto. Aspetti giuridici e sociologici, Giappichelli. Facevano parte del gruppo di ricerca, oltre alle autrici di questo articolo, Valentina Goglio, Valentina Pacetti, Simone Tosi e Marinella Vercelli.]
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