È già iniziata la stagione delle "grandi rimozioni". Per quanto sia comprensibile il desiderio di lasciarsi alle spalle le difficoltà della pandemia, il rifiuto di mettere a frutto quanto appreso negli ultimi due lunghi anni apre scenari non rassicuranti per il mondo del lavoro. Si assiste infatti a un profondo radicalismo delle posizioni in fatto di flessibilità spazio-temporale e schemi ibridi. O tutto o niente. Paladini del lavoro agile contro fanatici della timbratura, in un estenuante gioco delle parti. Non si tiene però conto di un dato imprescindibile: lo stato di eccezione e la complessità che ne è scaturita hanno stravolto il modo in cui intendiamo il lavoro.

Porzioni consistenti della forza lavoro si apprestano a esercitare un’intransigenza, in parte inedita, che va dritta al cuore della questione. La ricerca di un lavoro di qualità – nozione “multidimensionale” da interpretare anche in relazione alle esigenze di vita delle persone – assume un valore irrinunciabile, tanto da generare fenomeni di dimissioni di massa, che si registrano anche in Europa, seppure con una consistenza più limitata rispetto al caso americano.

La strada più immediata per restituire senso e valore al lavoro passa attraverso l’accrescimento dei margini di autonomia e scelta, specie in un momento in cui il potere delle tecnologie diventa sempre più invasivo. Il confronto politico-sindacale promette di restare acceso, almeno fino a quando le vuote retoriche del soluzionismo digitale non lasceranno il passo a modelli professionali in grado di emancipare, ripagare e soddisfare i lavoratori. Va da sé che tali pratiche non sono da sole in grado di curare i mali di un mercato del lavoro in affanno, ma di certo contribuiscono a eliminare alcune tra le più tossiche scorie di un approccio manageriale fortemente arretrato.

Su questo dibattito si innesta la riflessione, ormai su scala europea, sulle potenzialità del cosiddetto south working, l’opportunità di lavorare nelle aree marginalizzate (o considerate periferiche rispetto ai grandi centri) per imprese la cui sede è nei centri industriali o addirittura all’estero. Tale iniziativa ha impatti positivi sull’equilibrio esistenziale degli individui e lo sviluppo delle comunità. Le caratteristiche e i limiti di questo movimento sono state mappate e analizzate in una ricerca multidisciplinare culminata in South working. Per un futuro sostenibile del lavoro agile in Italia, opera collettanea curata da Mario Mirabile ed Elena Militello, edita da Donzelli.

Gli ultimi dati ci restituiscono una fotografia di grande interesse. Dopo aver apprezzato modelli di auto organizzazione ed elasticità, molti lavoratori non sembrano disposti a farne a meno, e individuano in tali fattori una delle fonti del proprio benessere (livelli minori di stress e più tempo da dedicare a sé stessi). Eppure, accanto ad esperienze all’avanguardia e protocolli d’intesa con enti locali, emergono storie di asfissiante resistenza alla novità, tanto nel privato quanto nel pubblico. Il rischio è che si perpetui il sottosviluppo di una parte del tessuto produttivo, passando dall’errore del “piccolo è bello” alla perseveranza dell’“anacronistico è meglio”.

Nel nostro Paese sono remotizzabili le mansioni svolte solo da un lavoratore su tre – stima legata al contenuto dei compiti, alle modalità di esecuzione, alle dimensioni dell’impresa, oltre che alla disponibilità di competenze e strumenti digitali. Perché dunque tutta questa opposizione? Sullo sfondo il sospetto che il tanto invocato controesodo serva per lo più a giustificare improvvidi investimenti immobiliari o ad assecondare le manie di controllo di qualche manager insicuro. Più concretamente, ci si trova a fare i conti con la scarsa propensione al cambiamento, condita con l’incapacità di frantumare le troppe rendite di posizione che tengono la competitività al palo.

Nella terza estate dall’avvio della pandemia, torna puntuale una concezione punitiva della gestione delle risorse umane, incapace di archiviare il regime “comando e controllo” a favore di schemi fondati su fiducia, autonomia e responsabilizzazione. L’aggressività con cui si vorrebbe riportare tutti in ufficio (neppure estranea a chi promette di accompagnare l’umanità sulla Luna) conferma che la sfida a cui siamo chiamati è prima di tutto valoriale, oltre che organizzativa. Ha senso dunque usare le lenti della sostenibilità eco-sociale, per capire come rendere la pratica del lavoro da remoto prestato nelle aree a bassa densità una politica di sviluppo umano e territoriale.

Torna puntuale una concezione punitiva della gestione delle risorse umane, incapace di archiviare il regime “comando e controllo” a favore di schemi fondati su fiducia, autonomia e responsabilizzazione

Anche lo scompaginamento dell’orario di lavoro in contesti porosi e perennemente connessi impone una riflessione senza pregiudizi. Fin dalla prima rivoluzione industriale, la pressoché univoca corrispondenza tra tempi, spazi e azioni era in grado di porre limiti positivi e negativi all’esercizio dei poteri datoriali, all’applicazione delle salvaguardie di salute e sicurezza e delle regole in materia di disponibilità e reperibilità. Inoltre, per gran parte del ceto medio impiegatizio non vi era commistione tra dimensioni privata e professionale, né ci si poneva il problema di come calcolare le diverse componenti della retribuzione. Oggi si fa molta più fatica ad avere certezze.

Servono allora nuove idee per favorire l’equilibrio tra vita e lavoro, ridurre le disuguaglianze (specie quelle di genere) e contribuire all’innovazione dei modelli organizzativi. Mentre infuria la discussione sui “salari da fame”, scarsa attenzione si presta alle radici culturali di questo malanno: un lavoro organizzato male e contrattato peggio difficilmente sarà in grado di tenere il passo delle trasformazioni in atto. In coerenza con le sfide del Piano Next Generation EU, si potrebbe partire proprio dalla ridefinizione delle prassi organizzative, puntando alla de-sincronizzazione delle attività professionali per favorire la produttività del lavoro.

Si potrebbe partire proprio dalla ridefinizione delle prassi organizzative, puntando alla de-sincronizzazione delle attività professionali per favorire la produttività del lavoro

D’altra parte, il cambiamento di paradigma innescato dal lavoro prestato “altrove” ha effetti significativi anche sulla geografia economica e sull’antropologia sociale. Dopo secoli in cui lo sviluppo demografico dei luoghi è dipeso direttamente dalla capacità produttiva degli stessi, tornano protagonisti paesi e territori che hanno conosciuto un progressivo e inesorabile spopolamento per via della emigrazione di massa, determinata dal mancato sviluppo industriale di molte aree del nostro Paese. L’attrattività dei luoghi non è più dettata soltanto dalla presenza di attività economiche, ma trova il suo perno nella persona del lavoratore e nelle sue scelte.

Le buone intenzioni non bastano, però. Le aree interne, quelle zone che si caratterizzano per una distanza da alcuni servizi essenziali (sanità, scuola, mobilità) che rende difficile la vita quotidiana, devono attrezzarsi per essere all’altezza delle attese e scongiurare che il recente dinamismo si riveli moda passeggera o, peggio, tendenza estrattiva. Per immaginare un futuro demografico diverso, in cui le scelte sull’abitare si orientino diversamente dal passato, non sono neppure sufficienti gli incentivi a pioggia o la corsa all’oro dei bandi statali, spesso finalizzati a misure del tutto effimere che finiscono per acuire le criticità che si propongono di alleviare.

Le classiche tecniche promozionali finalizzate a incentivare contro-scelte abitative (dalla vendita di case a un euro agli sgravi fiscali temporanei) vanno accompagnate con un percorso di ricucitura delle trame di comunità e cittadinanza. C’è il rischio, infatti, che il lavoro dalle aree a bassa densità resti un privilegio per chi, in virtù della propria forza contrattuale, già gode di ampi margini di flessibilità, cristallizzando così vecchie e nuove diseguaglianze. Al contrario, tale strumento potrebbe avere portata e ambizioni più universali e democratiche. Indirettamente, il rientro di dipendenti e professionisti rappresenta infatti un fattore di riscatto per le aree impoverite.

Le classiche tecniche promozionali finalizzate a incentivare contro-scelte abitative (dalla vendita di case a un euro agli sgravi fiscali temporanei) vanno accompagnate con un percorso di ricucitura delle trame di comunità e cittadinanza

Proprio per evitare la trappola consolatoria del borgo romantico, è dunque opportuno alzare il livello del dibattito saldando le rivendicazioni individuali di flessibilità organizzativa e conciliazione con quelle collettive di emancipazione da mansioni a scarso valore aggiunto rese in contesti organizzativi rigidi. In questa “piattaforma” non devono mancare le strategie per ridurre i divari geografici del Paese, tanto lungo l’asse Sud/Nord, quanto lungo quello urbano/rurale.

In questo scenario di vibrante incertezza, a poco serviranno le soluzioni “a taglia unica” calate dall’alto. È indispensabile un’ampia mobilitazione che coinvolga tutte le forze in campo – imprese, sindacati, enti locali – per rendere effettivamente praticabile un nuovo rapporto virtuoso tra lavoro e territorio, nella consapevolezza che la frattura dell’unità di luogo tra impresa e prestazione di lavoro generata dalla pandemia costituisce, ormai, un punto di non ritorno.