I termini smart work e lavoro agile non trovano corrispondenza in altre lingue. In inglese distance work, telework, home work si riferiscono al luogo dove si lavora, lontano dalla sede del datore di lavoro; i termini agile work e flexible work includono anche la flessibilità di orario.
In Italia il telelavoro, ossia il lavoro svolto a distanza senza riferimento a modifiche nei contenuti, era stato regolamentato dalla legge n. 191/1998 ma non si era diffuso. La legge n. 81/2017 art. 18 battezzava e regolamentava il lavoro agile «quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici». Questa legge regolamentava così un modello di lavoro già diffuso nella pratica, orientato ad assicurare una conciliazione di vita e lavoro e a promuovere un lavoro basato su obiettivi: da tempo veniva denominato smart working.
Nel 2019, in Italia, il 50% delle grandi imprese aveva adottato per 1 o 2 giorni alla settimana forme di smart working – o lavoro agile o, come io preferisco definirlo, lavoro ubiquo. Lo stesso aveva fatto solo il 12% delle Pmi e il 16% della Pubblica amministrazione. L’Osservatorio del Politecnico di Milano che aveva rilevato questi numeri notava che queste forme di smart working rivelavano «una filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati».
La pandemia, dal marzo 2020, ha portato improvvisamente oltre 6 milioni di italiani a lavorare da remoto, costringendo così a ridisegnare contenuti, processi e controllo del lavoro
La pandemia, dal marzo 2020, ha portato improvvisamente oltre 6 milioni di italiani a lavorare da remoto, quando il Dl 17 marzo 2020 ha sospeso gli accordi individuali. Lavorare a distanza implica due grandi cambiamenti nel modo di lavorare: non basta più timbrare ed essere presenti sul posto di lavoro ma occorre definire i processi di lavoro e i loro obiettivi; il controllo non può essere esercitato dai capi intermedi ma da qualche sistema digitale e dalla verifica dei risultati. Dal marzo dell’anno scorso questo è divenuto necessario senza che fosse stato preparato.
Che cosa è avvenuto in questi 16 mesi? Il principale indiscutibile vantaggio è stato che le organizzazioni e le persone hanno continuato a lavorare e che il Paese non si è fermato. Ma quando la pandemia sarà cessata, il lavoro remoto, smart, ubiquo sopravviverà, pur non essendo più una necessità sanitaria? Mancano ancora dati certi, tuttavia prevale la persuasione che i vantaggi nel mantenere un quota non marginale di lavoro agile siano superiori agli svantaggi: in alcune ricerche condotte da grandi imprese e amministrazioni la produttività è stimata in aumento fino al 2% in ragione di un maggiore impegno qualitativo e probabilmente quantitativo dei lavoratori; si è registrato un grande balzo della digitalizzazione; si è accelerata la diffusione del lavoro responsabile e del lavoro di gruppo; professional, giovani, donne hanno espresso in grande maggioranza soddisfazione nel lavorare in remoto; le imprese hanno individuato forti potenziali risparmi di spazi; si è ridotto il traffico stradale e l'inquinamento delle grandi città, in linea con quanto il Pnrr persegue rispetto alla Agenda Onu 2030.
D’altra parte, però, non sono mancati gli svantaggi: soprattutto per i lavori più ripetitivi è stato difficile assicurare un impegno di lavoro soddisfacente (dando luogo al cosiddetto «lavoro a domicilio sul divano»); i servizi di front office fisico non sempre sono stati ben sostituiti dal web o dai call center; le organizzazioni più burocratiche e i relativi capi intermedi sono apparsi spesso disorientati; le lavoratrici e i lavoratori con abitazioni piccole e con bambini hanno avuto seri disagi. Sono tuttora aperte questioni importanti sull'insufficienza delle infrastrutture tecnologiche, sulla cybersecurity, sulla difficoltà di pianificazione e promozione delle aree periferiche delle grandi città; mente nei centri città sono caduti i prezzi degli immobili e sono in difficoltà le attività di ristorazione. La regolazione giuridica e contrattuale del fenomeno, inoltre, è in corso di definizione con vive controversie.
In sintesi, non abbiamo abbastanza dati per valutare dove, in quali processi lavorativi, in che contesto organizzativo, con quali popolazioni lo smart work è vantaggioso, gestibile dal management, fruttuoso per le persone. Certamente non deve diventare campo di una guerra di religione fra esaltatori e detrattori, ma un cantiere aperto che richiede interventi clinici e progettuali a livello delle singole imprese e amministrazioni entro un sistema di politiche trasversali, come sosterremo più avanti.
In prossimità di un'auspicabile attenuazione delle misure anti-Covid, molte grandi imprese prevedono che almeno il 60% del personale continuerà a dividersi fra lavoro in sede e lavoro remoto con diverse proprorzioni, confermando un modello di lavoro ubiquo. Non solo a casa ma anche in spazi di coworking nei quartieri «a 15 minuti» o al Sud con il cosiddetto south working. Quasi tutte continuano a perfezionare i loro programmi di progettazione e gestione del lavoro agile: solo poche hanno annunciato di voler riportare in sede tutti i dipendenti, provocando peraltro una rivolta dei sindacati. E quando il ministro Renato Brunetta ha annunciato l’intenzione di limitare al 15% il numero dei dipendenti pubblici autorizzati a lavorare remoto, da più parti gli sono giunti vigorosi inviti a cambiare idea.
Le esperienze pre- e post-Covid citate di lavoro ubiquo accelerano e probabilmente rendono irreversibili due grandi tendenze di trasformazione del lavoro in atto fin dagli anni Settanta: la remotizzazione del lavoro, resa possibile dalla digitalizzazione, e la professionalizzazione del lavoro dei knowledge workers e dello sviluppo dei teams e delle comunità di pratiche. Un fenomeno storico, quindi, non un’emergenza che si può cancellare normativamente. Il suo primo dato strutturale riguarda i contenuti del lavoro: al di là delle numerose definizioni e regolazioni, le forme reali e «in azione» di lavoro agile o ubiquo tendono a configurare un modello evolutivo di new way of working. Indipendentemente dalla proporzione del tempo passato in sede o a distanza, questo modo di lavorare appare principalmente come un fenomeno organizzativo, corollario di sistemi socio-tecnici di nuova concezione basati sull’integrazione fra tecnologie digitali abilitanti, organizzazioni flessibili degli uffici basati sui teams e sul modello 4C (Cooperazione autoregolata/Condivisione di conoscenze/ Comunicazione estesa/ Comunità performanti), nuovi modelli di lavoro basati su ruoli responsabili e professioni a larga banda. Una new way of working orientata a conseguire produttività e innovazione e assicurare conciliazione delle condizioni di vita e di lavoro.
Il secondo dato strutturale riguarda i processi di cambiamento. Sono stati diffusamente sperimentati percorsi e metodi di cambiamento dell’organizzazione e del lavoro che si sono modellati sulle specificità delle imprese e delle amministrazioni e sulle diverse fasce della popolazione. Prima e durante la pandemia quasi tutte le imprese grandi e medie hanno adottato programmi di riorganizzazione e valorizzazione del lavoro estesi a tutti i dipendenti, ridisegnando ruoli, sistemi di performance, team management, introducendo tecnologie digitali della cooperazione e sviluppando programmi di formazione: per citarne solo alcune Banca Intesa, Bnl, Bayer, Poste, Unicredit, Vodafone, Ansaldo, Acea, Enel, Danone. Alcune Pubbliche amministrazioni come Regione Emilia-Romagna, Regione Lazio, Inail e Mef hanno condotto progetti non meno innovativi delle aziende private. Il Dipartimento della Funzione pubblica, da parte sua, ha lanciato un programma come il Pola (Piano organizzativo del lavoro agile) che ha lo scopo di «sviluppare e documentare azioni organizzative orientate ad affidare una maggiore responsabilità alle persone; migliorare la valutazione delle performance; attivare programmi di benessere organizzativo, di inclusione, di trasformazione digitale, di razionalizzazione delle risorse strumentali, di riprogettazione degli spazi di lavoro, di sviluppo sostenibile».
Recentemente, poi, il Dl n. 80/2021 (Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle Pubbliche amministrazioni) all'art. 6 richiede alle amministrazioni con più di 50 dipendenti di sviluppare piani integrati di attività e di organizzazione da presentare annualmente al Dfp, che fa capo proprio al ministro Brunetta. Nel piano confluisce una pluralità di adempimenti come il Pola citato, i piani delle performance, il piano di valutazione dei fabbisogni, il piano di formazione del personale, il piano di trasparenza e anticorruzione. L’effettiva realizzazione di questi piani potrebbe diventare una sorta di reinventing governement italiano.
Si è aperto così un cantiere esteso che sta generando un patrimonio prezioso di metodi e soluzioni che va documentato e condiviso. Le organizzazioni sono «in corsa» e non si possono fermare. Non si può perdere l’opportunità di comprendere e orientare un esperimento organizzativo di portata non inferiore all’avvento del taylor-fordismo o della lean production.
Non si può perdere l’opportunità di comprendere e orientare un esperimento organizzativo di portata non inferiore all’avvento del taylor-fordismo o della lean production
Che fare allora? La proposta contenuta nel Progetto di ricerca e di azione lanciato dalla Fondazione Irso e condiviso da una community di oltre 100 amministratori pubblici, manager, sindacalisti, studiosi si basa su due livelli: a) progettazione e sviluppo di una new way of working nelle singole organizzazioni – oggetto di responsabilità del management, delle rappresentanze dei lavoratori, delle persone – e b) politiche trasversali – oggetto della responsabilità del legislatore e dei policy makers.
Per quanto riguarda il primo livello, i casi esemplari citati sono importanti ma non sufficienti. Occorre ora favorire gli sviluppi nelle piccole e medie organizzazioni che includono la più alta quota di Pil e di occupazione una modernizzazione che può avere un grande impatto economico e sociale. Occorre adottare un approccio clinico e progettuale appropriato alle singole organizzazioni. Lo smart working potrà consolidarsi e diffondersi solo se sarà progettato e gestito con rigore, metodo e appropriatezza ai diversi contesti, scegliendo la giusta proporzione fra lavoro in sede e lavoro remoto.
Vanno sviluppati progetti e programmi che tengano conto in maniera contestuale e integrata delle diverse dimensioni che compongono il fenomeno. Gli aspetti legali, le infrastrutture telematiche, le tecnologie di supporto sono quelli che preoccupano di più. Il tema del giorno è la proporzione tra lavoro in sede e lavoro da remoto, che va definita non per quote ma in base alle strategie economiche, di servizio, di qualità della vita delle singole organizzazioni o delle loro diverse tipologie.
Occorre far sì che gli «uffici-fabbrica» si riducano sempre di più a favore di quelli a base professionale. Occorre soprattutto procedere allo sviluppo del lavoro in team, passare dalle mansioni prescritte e parcellari a ruoli basati su responsabilità dei risultati, capacità di collaborazione con le altre persone e di uso delle tecnologie, controllo dei processi simbolici e materiali e senso della comunità: questo non è facile senza processi partecipati di organization and job design. La formazione delle persone, inclusi i capi e i dirigenti, va vista in relazione a questa trasformazione di new skills for new jobs. Le relazioni industriali dovranno diventare «propositive» e «progettuali»: il sindacato o le rappresentanze dovranno partecipare attivamente ai processi di cambiamento e non negoziarli quando sono già avvenuti. Sì ad alcune (poche) norme e a (pochi) accordi cornice. Ma soprattutto sì a molti «cantieri di progettazione innovativi e partecipativi».
Per quanto riguarda le politiche trasversali (livello b), sei sono le principali aree che possono influenzare il fenomeno.
- Una Commissione ministeriale è al lavoro su un nuovo assetto regolatorio. Esso dovrebbe riguardare tre livelli compresenti: norme primarie, contrattazione collettiva, accordi fra datore di lavoro e singolo lavoratore. La legislazione statale è essenziale innanzitutto per definire le finalità del lavoro agile, oggi limitate a conciliazione e competitività, e per disciplinare l’accordo individuale, come nel disegno di legge presentato dai giuristi del gruppo Freccia Rossa: ad essa andrebbero demandate inoltre materie come la definizione della durata giornaliera massima di lavoro; il diritto alla disconnessione; le regole di sicurezza per il lavoratore. Alla contrattazione collettiva vanno demandate l’adozione e l'impiego delle tecnologie, le regole di cybersecurity, i sistemi retributivi; la proporzione in presenza e in remoto; la definizione di progetti partecipati di riorganizzazione. Agli accordi individuali andrebbero riservate la definizione dei ruoli e degli obiettivi; l’identificazione e le regole dei gruppi di lavoro di cui si fa parte; l’attività formativa richiesta; le condizioni particolari per la conciliazione tra vita privata e lavoro.
- Il Pnrr prevede di dedicare forti investimenti alle reti telematiche e alle tecnologie di supporto al lavoro e alla formazione a distanza.
- La riforma della formazione terziaria, i programmi di reskilling, le risorse europee per la formazione vanno impegnati per lo sviluppo di efficaci programmi di formazione continua su competenze digitali, di dominio, competenze trasversali, a livello 4,5,6 del sistema europeo delle qualifiche.
- Occorre promuovere e sostenere cantieri di cambiamento dell’organizzazione del lavoro per le imprese e assicurare la realizzazione di quelli proposti per la Pubblica amministrazione con il Dl n. 80/2021. Una sorta di piano New way of working 4.0, finanziato dal Pnrr, dovrebbe convogliare supporti professionali per le Pmi e per la Pubblica amministrazione offerti da università, società informatiche, di consulenza e formazione con modalità e costi sostenibili.
- Sarà poi opportuno prevedere incentivi fiscali per trasformare gli assetti urbani, gli uffici, gli ambienti domestici.
- Occorre infine integrare e promuovere ricerche multidisciplinari sull'«esperimento smart working» di questi mesi per comprendere che cosa è avvenuto veramente e che effetti ha avuto: un impegno collaborativo di università, centri di ricerca, grandi imprese, sindacati.
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