Che l’obbligo di raccogliere 3.500 sottoscrizioni delle liste fosse diretto a ostacolare l’accesso alla competizione elettorale alle formazioni più deboli è noto. Che la regola si sarebbe tuttavia rivoltata come un boomerang contro la più potente delle formazioni politiche nessuno invece l’avrebbe mai immaginato.
La regola impone che almeno 3.500 elettori firmino in calce a una lista di candidati, rendendosene i proponenti, e che le sottoscrizioni siano autenticate da una persona abilitata, tenuta ad attestare luogo e data della sottoscrizione, a dar conto della propria qualifica, e ad apporre il timbro dell’ufficio di appartenenza. L'apparente severità della disciplina è giustificata dall’ampiezza della platea dei soggetti abilitati all’autenticazione: a fianco ai tradizionali notai e cancellieri sono ammessi anche sindaci, assessori e semplici consiglieri comunali e provinciali (vale a dire veri e propri compagni di partito non avvezzi a svolgere ruoli di pubblico ufficiale). Forze politiche di minoranza, tra cui in prima fila i radicali, prive di assessori e consiglieri disponibili a svolgere le funzioni di autenticatore radicali hanno denunciato l’impossibilità di rispettare la disciplina. Ma ne hanno lamentato anche la strisciante violazione da parte delle formazioni politiche maggiori, le quali hanno procastinato i litigi sulle liste sino al giorno della loro presentazione, perché in realtà ai loro simpatizzanti facevano apporre le firme su “moduli in bianco”: privi, dunque dell'indicazione dei candidati, da aggiungersi solo all’ultimo momento, quando gli accordi politici fossero risultati finalmente conclusi. I fatti dimostrano che avevano ragione.

Il 27 febbraio i radicali hanno presentato un numero di firme regolarmente autenticate con le modalità imposte dalla legge apertamente e dichiaratamente insufficiente (1.838) a presentare la propria lista che conseguentemente non è stata ammessa. Lo stesso giorno la lista Formigoni ha dichiarato di presentare 3.935 firme autenticate. Dopo un primo conteggio l’Ufficio Centrale Regionale (composto di tre magistrati di Corte d’Appello, chiamati a verificare la validità di 25/30.000 firme in sole 24 ore) ha ammesso la lista. I radicali  hanno chiesto di esaminare tutti i moduli presentati dagli altri partiti e hanno constatato come fossero stati autenticati in modo frettoloso e maldestro: centinaia di autenticazioni mancavano dell’indicazione della data, del luogo della sottoscrizione o della qualifica del soggetto autenticatore o, infine, del timbro richiesto. All’esposto dei radicali è seguito un riesame approfondito da parte dell’Ufficio, che ha disposto la non ammissione della lista Formigoni poiché le autenticazioni regolari effettivamente non raggiungevano il numero di 3.500.

La sera prima dell’udienza il Governo ha approvato un decreto legge per “aiutare i giudici a decidere” (così il ministro La Russa) con il quale erano declinati - sotto forma di legge - gli stessi contenuti del ricorso al Tar: “le decisioni di ammissione da parte dell’Ufficio sono definitive, non modificabili o revocabili dallo stesso ufficio” e “le firme si considerano valide anche se l’autenticazione non risulti corredata da tutti gli elementi richiesti”.
Il decreto si autodefinisce “di interpretazione autentica” nel maldestro tentativo di imporsi retroattivamente (è infatti solo la nuova norma che trova applicazione dal momento della sua entrata in vigore, mentre l’atto di interpretazione ha forza anche per il passato). Il Tar Lombardia ha fatto a meno dell’aiuto governativo e ha accolto il ricorso, affermando il principio dell'immodificabilità della decisione di ammissione una volta pronunciata (la sentenza 1432 del 2004 del Consiglio di Stato afferma tuttavia l’esatto contrario).
In realtà la norma di legge dice solo che “contro la decisione di eliminazione i delegati possono ricorrere all’Ufficio”, cioè disciplina il caso di ricorso della parte interessata. La legge tuttavia non impedisce affatto (ma è meglio dire non impediva) all’Ufficio di autonomamente rettificare l’ammissione una volta resosi conto di aver compiuto degli errori materiali.

In conclusione, gli Uffici non possono più rimediare agli errori eventualmente commessi nell’ammettere una lista neppure quando siano stati, ad esempio, indotti in errore dalla falsità delle dichiarazione dei presentatori. Chi ha pedantemente osservato tutte le formalità di legge è rimasto escluso dalla competizione elettorale; chi quelle stesse regole non ha osservato ha poi preteso di esserne addirittura esonerato invocando il principio della massima partecipazione; e, nell’incertezza di ottenere dal giudice l’esonero dalla legge, ha – per sicurezza – cambiato la legge elettorale mentre la competizione era già in corso.
Se “i fatti” avessero avuto per protagonista una formazione politica di minoranza la loro esclusione sarebbe stata pacificamente accettata come ineluttabile conseguenza del principio di legalità; ma se le regole elettorali sono disattese dai partiti più forti si deve chiudere un occhio; anzi due, per star proprio sicuri.
Ha ragione il presidente Napolitano, un vero “pasticcio” che mostra, e dimostra, che “la legge (non) è uguale per tutti”.