Che i pesci non conoscano il concetto di confine statale sembra assodato. Fanno eccezione, però, i pesci che nuotano attorno al Regno Unito, decisamente più sereni da quando questo ha detto goodbye ai vicini d’oltremanica e riaffermato così la sua identità di Stato costiero indipendente.
O perlomeno, questo è quanto ritiene Jacob Rees-Mogg, esponente di punta del partito conservatore e membro dell’attuale governo Johnson. Rispondendo a un’interpellanza parlamentare presentata nel gennaio del 2021 da un parlamentare scozzese, nella quale si lamentava l’impatto disastroso della Brexit sul settore ittico, Rees-Mogg ha ribattuto che i pesci che sguazzano nelle acque di sua maestà britannica sono oggi più felici... In quanto British! A distanza di un anno, e non sempre in modo così farsesco, il mare continua a figurare tra i protagonisti della saga iniziata col referendum del 2016.
Di mare e di pesca si è infatti parlato tanto negli ultimi mesi a causa delle frizioni anglo-francesi nel canale della Manica. Il nocciolo della questione si situa nei diritti alla pesca per accedere alle acque territoriali di Regno Unito, da una parte, e Stati Ue, dall’altra. Come stabilito dal Trattato commerciale e di cooperazione tra il Regno Unito e l’Unione europea, entrato in vigore il 31 gennaio di un anno fa, le licenze vengono erogate a quanti riescano a dimostrare di aver pescato in una determinata area tra il 1° febbraio 2017 e il 31 gennaio 2021.
Un principio lineare se non fosse per le difficoltà incontrate dai pescherecci di piccole dimensioni nel dare prova di questo periodo di attività. Difficoltà che hanno portato alla mancata assegnazione di licenze a una serie di pescherecci francesi, i quali si sono visti improvvisamente negato il diritto a pescare nelle acque circostanti l’isola di Jersey, dipendenza della Corona britannica situata a pochi chilometri dalla costa settentrionale della Francia. Al diniego ha fatto seguito la protesta «fisica» dei pescatori, a cui ha dato man forte il governo Macron con la minaccia – per ora non materializzata – di sospensione della fornitura di energia elettrica all’isola.
Per citare un episodio, la scorsa primavera circa una sessantina di imbarcazioni francesi hanno bloccato il porto di Saint Helier, capitale di Jersey, provocando l’invio da parte del governo Johnson – la cui manica abbonda di armi di distrazione di massa – di due pattugliatori della marina britannica. Risposta evidentemente esagerata ma che è riuscita a occupare le prime pagine dei principali giornali inglesi (a fronte di scarsa attenzione degli omologhi francesi), aiutando il governo a mostrarsi muscoloso e distrarre, almeno per qualche giorno, dagli errori grossolani e non sempre innocenti compiuti nella gestione della pandemia. Ad ogni modo, sebbene siano state nel frattempo concesse ulteriori licenze, come domandato dai francesi, ad oggi la questione dei diritti alla pesca nel canale della Manica rimane da dirimere. Tra i tanti paradossi della Brexit vi è l’insoddisfazione di un intero settore, quello ittico, che si era rivelato tra i più ferventi sostenitori del divorzio con l’Ue
Ma i pescatori francesi e il loro governo non sono i soli scontenti in questa storia. Tra i tanti paradossi della Brexit vi è l’insoddisfazione di un intero settore, quello ittico, che si era rivelato tra i più ferventi sostenitori del divorzio con l’Ue. Un’insoddisfazione fotografata qualche mese fa nel Rapporto pubblicato dal Nffo, la federazione nazionale delle imprese di pesca del Regno Unito, nel quale si denunciano i costi inflitti dalla Brexit sul settore della pesca – secondo lo studio di gran lunga superiori ai benefici. E infatti, sebbene il Regno Unito sia diventato uno Stato costiero in linea con le aspirazioni di tanti Brexiteers (così vengono chiamati i sostenitori della Brexit), oggi le sue prerogative sovrane non eguagliano quelle di altri Stati che godono di questo status, ai quali il diritto internazionale riconosce l’uso esclusivo delle acque fino a 12 miglia marine dalla costa.
Diversamente, almeno fino al 2026, la sovranità del Regno Unito si irradierà solo fino alle 6 miglia marine; il che significa che, oltre queste, pescherecci battenti bandiera inglese non godranno di privilegio alcuno. Come non menzionare poi il grattacapo dei tanti costi aggiuntivi (economici e burocratici) che i pescatori si ritrovano a sostenere come conseguenza dell’uscita del Paese dal Mercato unico? Costi che hanno portato ad atti di esasperazione e protesta quali la celebre rimostranza dei camion carichi di pesce parcheggiati di fronte a Downing Street nel gennaio dello scorso anno.
Tutto ciò stride con le tante promesse fatte in campagna elettorale dal lato pro-Brexit per conquistare l’appoggio dei lavoratori del settore ittico. Viene quindi da chiedersi se sia convenuto ai Brexiteers e ai politici che li rappresentano porre così tanta enfasi su un settore che in fin dei conti esercita un peso assai limitato sull’economia britannica: appena lo 0,1%.
Ma è chiaro che nell’era dell’apparenza la sostanza conta relativamente: la pesca – così intrinsecamente legata al mare e alla sua capacità di proiettare potenza verso la terraferma – ricopre un importante significato simbolico. Ancor più nel contesto del Regno Unito, isola dal trascorso imperiale e dalla lunga, rispettata e radicata tradizione marittima. Una configurazione geografica e un passato che hanno da sempre determinato un senso di superiorità e di eccezionalismo. Sia in campagna elettorale sia a seguito del referendum, il divorzio con i cugini europei è stato presentato come una macchina del tempo in grado di riportare il Regno allo splendore imperiale
Quest’ultimo non solo è sopravvissuto fino ad oggi, ma è stato ulteriormente alimentato dalla questione Brexit. Difatti, sia durante la campagna elettorale sia a seguito del referendum, il divorzio con i cugini europei è stato da taluni presentato come una macchina del tempo in grado di riportare il Regno allo splendore imperiale del passato. Metafora anacronistica ed illusoria, è chiaro; ma che scaltri politici formulano e cavalcano con maestria per sviare da errori e questioni più pressanti – come il preoccupante inasprimento delle tensioni nel Nord dell’Irlanda e il carburante fornito alle spinte indipendentiste in Scozia e non solo – e alimentare un’illusione di potenza che possa consolare quanti vedono nel ritorno a una indipendenza totale (chimera anch’essa) la soluzione ai tanti mali che affliggono oggi la società britannica – dagli elevati tassi di disuguaglianza al progressivo smantellamento del Welfare, per citarne un paio.
Un trucco che il primo ministro Johnson esegue magistralmente, come testimonia una sua recente proposta di reintrodurre il sistema di misurazione imperiale in pounds e ounce a fianco di quello metrico. (Sì, è successo davvero. Qui per saperne di più.) Tutti escamotages che gettano fumo negli occhi a quegli elettori a cui la Brexit era stata presentata come una panacea ma che si è rivelata in molti casi uno specchietto per allodole.
In conclusione, a due anni dal 31 gennaio 2020, giorno che segna l’uscita ufficiale della Gran Bretagna dall’Ue, quali somme possiamo tirare? Per rimanere nella metafora marina, sembra proprio che con la Brexit si sia preso un granchio: un errore grossolano che rischia di mandare in frantumi non solo le speranze e le aspettative di un intero settore produttivo, quello ittico, e di quanti vedevano nel divorzio col continente un rimedio universale; ma le (assai fragili) fondamenta dello stesso Regno Unito, oggi attraversato da spinte centrifughe e da cospicue faglie sociali che la Brexit non ha certo creato, ma che ha contribuito a inasprire. Ma almeno i pesci, quelli sì, sono sereni.
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