Quando, il 24 ottobre del 1975, le donne islandesi hanno proclamato il primo giorno libero delle donne, la notizia ha fatto molto scalpore. Una giornata intera in cui non si sarebbero presentate sul posto di lavoro, ma non avrebbero neppure fornito tutte quelle attività di cura non retribuita (dei figli, degli anziani, della casa) di cui invece, tradizionalmente, erano proprio loro a occuparsi. Un Paese bloccato, perché, allora come ora, le donne erano la maggioranza delle insegnanti nelle scuole dell’infanzia, delle infermiere negli ospedali, delle cassiere, delle commesse. Con gli asili nido chiusi e le mamme in piazza, i quotidiani del giorno successivo mostravano divertiti foto di padri “costretti” a portare i figli sul posto di lavoro. Ma anche di file di questi uomini e dei loro figlioli fuori dai ristoranti, senza le donne che cucinassero a casa.

Sappiamo anche che, sul fronte delle manifestanti, ci fu un vero e proprio processo dialettico per evitare di chiamarlo “sciopero”, e infatti venne denominato il “giorno libero” delle donne. All’epoca, il differenziale salariale tra donne e uomini in Islanda era pari a circa il 60% e molte donne non lavoravano perché veniva loro tradizionalmente attribuito il compito della cura non retribuita in casa. Inoltre, incredibile a pensarlo ora, il Paese era in preoccupante ritardo sotto il profilo della rappresentanza delle donne all’interno delle istituzioni: nel 1975, le parlamentari erano infatti solo 3, ossia il 5% del totale (mentre negli altri Paesi nordici la media era già arrivata al 23%).

Al “giorno libero” aderì il 90% delle donne islandesi. Ben 25 mila si riversarono in piazza a Reykjavík. Il segnale arrivò forte e chiaro. E le istituzioni risposero: l’anno successivo, venne promulgata una legge che garantiva l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne. Avendo sollevato anche il tema della rappresentanza politica, la protesta creò le condizioni per l’elezione di Vigdís Finnbogadóttir, prima donna al mondo eletta presidente della Repubblica, che rimase in carica dal 1980 al 1996.

Avendo sollevato anche il tema della rappresentanza politica, la protesta del 1975 creò le condizioni per l’elezione di Vigdís Finnbogadóttir, prima donna al mondo eletta presidente della Repubblica

Ne scriviamo perché, il 24 ottobre di quest’anno, le donne islandesi sono scese nuovamente in piazza. Questo gesto potrebbe in alcuni suscitare stupore: l’Islanda occupa saldamente la prima posizione nella classifica internazionale per la parità di opportunità tra uomini e donne redatta dal World Economic Forum nel Global Gender Gap Report . Nel 2023, per il quattordicesimo anno di fila, si conferma in vetta alla classifica (se per caso ve lo steste chiedendo, l’Italia si colloca in 79° posizione, dopo averne perse 16 in un solo anno).

Ma non è tutto: in Islanda il congedo di genitorialità ha la durata di un anno, da dividersi tra padre e madre (ovviamente, se facciamo riferimento a una coppia eterosessuale). Nel nostro Paese, le madri hanno 5 mesi di congedo retribuito al 100% e i padri solo 10 giorni. E, come se non bastasse, il 57% dei neo-padri non ne usufruisce, per motivi che non possono che essere di matrice culturale e con ogni probabilità legati all’iper-performatività del maschio, che deve sempre mostrare la propria virilità, in un sistema patriarcale come il nostro (e se ti prendi cura, fosse anche di tuo figlio, allora non sei maschio abbastanza). In Islanda, invece, i padri sono obbligati a usufruire almeno di 5 mesi di astensione dal lavoro, decidendo eventualmente di destinare un mese alla madre.

E allora per quale motivo le donne islandesi sono tornate in piazza? Per manifestare contro una disparità salariale che, in alcuni settori, è ancora pari al 21%. Perché, anche in Islanda, una donna su tre ha sperimentato una forma di violenza di genere nell’arco della propria vita. Ma anche perché le discriminazioni sul mercato del lavoro continuano a colpire non solo le donne, ma anche le persone queer e non binarie, che quest’anno, infatti, si sono unite alle donne nella protesta.

Anche in Islanda, le donne sperimentano quella che viene denominata “segregazione orizzontale”, essendo la loro forza lavoro concentrata in alcuni specifici settori produttivi. Ad esempio, rappresentano il 75% del personale che opera nelle biblioteche, ragione per cui il 24 ottobre il servizio bibliotecario è stato ridotto. Ma costituiscono anche la maggior parte delle persone che lavorano nelle scuole, per cui gli insegnanti maschi hanno svolto regolarmente il proprio lavoro e poi le scuole hanno chiuso. L’unico settore nel quale dall’organizzazione stessa è arrivata l’indicazione di fare eccezione è stato quello ospedaliero, nel quale le donne hanno lavorato utilizzando sui social l’hashtag #IoSonoIndispensabile, per rimarcare e rendere visibile la motivazione della loro presenza sul posto di lavoro.

E in piazza, nella sola Reykjavík, sono scese in circa 100 mila, senza considerare tutte le altre donne che hanno popolato le piazze delle altre 20 città che erano state scelte dalle organizzatrici. Secondo le prime stime, pare sia sceso in piazza un quarto della popolazione nazionale, tra cui molti uomini, per manifestare la propria vicinanza e il proprio sostegno. Mentre molti altri uomini sono invece rimasti a casa per supportare la causa in altro modo, occupandosi della cura di cui le proprie partner si fanno carico nella routine quotidiana.

Pare sia sceso in piazza un quarto della popolazione nazionale, tra cui molti uomini. Mentre molti altri uomini sono rimasti a casa per supportare la causa in altro modo. Quanti uomini italiani avrebbero fatto lo stesso?

Quanti uomini italiani avrebbero fatto lo stesso? Ma del resto, che l’Islanda sia un esempio virtuoso lo dimostra anche il fatto che in piazza vi fosse anche la premier, Katrin Jakobsdóttir, al grido di “Tu questa la chiami parità?”, lo slogan scelto dalle organizzatrici. Uno sciopero di 24 ore che ha dimostrato ancora una volta quanto il lavoro delle donne, sia in casa sia fuori casa, sia indispensabile, evidenziando in maniera inconfutabile che se le donne si fermano si ferma il Paese.

Consapevolezza che sarebbe meraviglioso poter importare anche in Italia, dove, al contrario, le donne sembrano spesso essere invisibili (se non nel loro ruolo riproduttivo, con l’equazione pericolosissima che identifica la donna automaticamente come madre). Il nostro Paese, secondo il World Economic Forum, è in 64° posizione per empowerment politico (poco conta avere una premier donna, se poi il numero di ministre, ad esempio, si riduce). Siamo in 95° posizione nell’area della salute e della sopravvivenza, perché il numero di femminicidi è totalmente fuori dai canoni per un contesto ricco e considerato avanzato. E poi, siamo in posizione 104 – su 146 Paesi considerati – per quanto riguarda le opportunità e la possibilità di partecipazione economica delle donne. Prima di noi, tutti i Paesi avanzati e anche molti di quelli emergenti e più poveri, ai quali spesso si guarda con supponenza. Eppure.

Abbiamo moltissimo da imparare dall’esperienza islandese. Limitiamoci, tuttavia, a quattro punti fondamentali.

Il primo: il percorso verso la parità di opportunità tra uomini e donne non è ancora su un piano inclinato, non è ancora in quella fase in cui si autoalimenta. Le ultime stime condivise dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres indicano che, al tasso attuale, vale a dire se non introduciamo forzature che accelerino il passo, ci vorranno 300 anni per raggiungere la parità di opportunità. È tantissimo. È troppo. E non solo perché queste discriminazioni (come del resto, qualsiasi discriminazione) sono ingiuste. Ma anche perché la violenza di genere costa: secondo la Commissione europea, ogni anno, questo costo ammonta a 370 miliardi di euro per i Paesi membri. Denaro che si potrebbe spendere altrimenti, se le discriminazioni e la violenza contro le donne venissero azzerati.

Il secondo: chiedere sempre (che è qualcosa che tradizionalmente le donne non fanno). Le donne islandesi si sono fermate ancora una volta perché non si accontentano. Perché ritengono che, anche (e soprattutto) per un Paese che si colloca in prima posizione per parità di opportunità tra uomini e donne, i dati sulla discriminazione salariale e sulla violenza di genere siano inaccettabili.

Il terzo: creare alleanze. Le donne non sono gli unici soggetti discriminati sul mercato del lavoro. Lo sono anche tutte le persone non binarie. È per questo che la giornata libera del 2023 ha visto la cooperazione tra le varie associazioni che si sono supportate l’un l’altra nel fare da cassa di risonanza all’iniziativa. Ma vanno creati anche ponti tra uomini e donne: i buoni alleati ci sono, è il momento che siano al nostro fianco.

Il quarto e ultimo: stipendi bassi, marginalizzazione sul mercato del lavoro, discriminazione salariale e violenza di genere fanno tutte parte del medesimo sistema di potere, che è quello patriarcale. E se vogliamo davvero ribaltarlo e andare insieme verso la parità, questi temi vanno affrontati in una prospettiva complessiva. Perché non c’è un tema più importante dell’altro. E perché non vogliamo più aspettare.