Vari racconti e romanzi italiani recenti parlano di altri libri o della vita di chi si occupa di libri (senza che i loro autori siano Borges, ovviamente). Di solito questa scelta, diciamo così tematica, suscita qualche irritazione nel lettore smaliziato. È facile capire i moventi di chi scrive un romanzo essendo a sua volta un editor e ambientando la storia (poniamo) nell’ambiente delle case editrici della Roma o della Milano d’oggi. La ragione sta innanzitutto nella tendenza al pigro e automatico rispecchiamento autofinzionale che fa della maggior parte della narrativa italiana contemporanea una steppa di noia e d’insopportabile narcisismo, popolata soprattutto da scriventi o da lettori professionali e autoreferenziali che si prendono troppo sul serio. Editor che scrivono romanzi su sé stessi, giornalisti che trasformano in romanzo la propria vita (di solito banalissima) da giornalisti, professori universitari che si autoritraggono tra aule e corridoi dipartimentali nelle improbabili e ridicole vesti di protagonisti di storie che si vorrebbero finte o, peggio ancora, interessanti.
Viviamo in un’epoca in cui i letterati hanno manifestamente rinunciato a sopravvivere a sé stessi, cioè la letteratura ha abdicato a qualsiasi pretesa d’eternità, puntando se mai ad essere diffusa ovunque
Come se scrivere piani di collana, articoli di giornale o saggi scientifici fossero attività che necessariamente implicano la velleità di chi avrebbe preferito applicarsi a ben altri testi per cercare la gloria nei territori della letteratura, considerati – chissà perché poi – più nobili e più appaganti di quelli riservati ad altre forme di lavoro intellettuale. Il ragionamento è tanto più fallace in un’epoca in cui i letterati hanno manifestamente rinunciato a sopravvivere a sé stessi, cioè la letteratura ha abdicato a qualsiasi pretesa d’eternità, puntando se mai ad essere diffusa ovunque (o almeno nei canali giusti del presente), ma non certo a durare per sempre, come quando i poeti fingevano o s’illudevano di scrivere per i posteri, e non per i compagni d’aperitivo o per i follower, come invece oggi sembra fare la maggior parte degli scriventi italiani.
La frustrazione, si sa, è uno dei motori più efficaci d’ogni tipo d’attività letteraria. C’è quella dell’accademico per non essere un artista, quella del giornalista per non essere un Autore (con la A maiuscola), quella dell’editor per non vedere il proprio nome in copertina; e, a chiudere perfettamente il cerchio in cui naviga la Narrenschiff della letteratura, c’è quella dello scrittore-semplice per non insegnare all’università, per non scrivere sui giornali o per non decidere della vita e della morte degli altri scrittori. Risultato: il giuoco dell’oca delle velleità o sia delle ambizioni deluse è pronto a ripartire ad ogni giro, ad ogni libro che esce, restando ovviamente non letto eppure presentato, recensito e magari persino premiato.
In un simile panorama, che qui molto sommariamente si è cercato di descrivere, gli avvistamenti curiosi e stimolanti sono molto rari, e perciò forse più meritevoli d’attenzione, e talvolta si manifestano dove meno te li aspetti. Si prenda il caso di Antonio Franchini, storico editor di Mondadori poi passato a Giunti. Un editor-scrittore, manco a dirlo, che tuttavia manifesta nei confronti della propria narrativa – peraltro pregevole, almeno comparativamente, se come ha notato Gianluigi Simonetti «sa scrivere meglio di tutti gli autori più o meno blasonati di cui si occupa» – una nonchalance simile al disinteresse, che s’esprime nella scelta di sedi editoriali di solito defilate (come le EnneEnne edizioni che hanno pubblicato l’anno scorso il suo Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani). Oppure in curiose forme di depistaggio.
Appunto un depistaggio in piena regola è quello per cui in una collana di Racconti (Marsilio) è uscita di recente una silloge di quattro testi che parlano di libri, Leggere possedere vendere bruciare. Si dirà: ancora un autore che non sa far altro che autofingere! E invece no: almeno due dei quattro testi del libro non sono racconti, ma saggi acutissimi sulla condizione dell’editoria italiana di oggi. Stesi rispettivamente nel 1998 (Lettore di dattiloscritti) e nel 2022 (Le età dell’oro dell’editoria italiana), essi rappresentano altrettanti panorami o schizzi sullo stato d’un mestiere cui è toccato negli ultimi decenni un curioso destino.
Tra le molte professioni intellettuali che in Italia hanno visto negli ultimi tempi diminuire sensibilmente il loro prestigio sociale, una posizione peculiare ha quella degli editori
Nello scritto del secolo scorso, un Franchini quarantenne abbozzava – con modestia mista a perplessità – la metafora dell’editor come levatrice della letteratura: «ci diverte – scriveva riferendosi ai professionisti della sua categoria – vedere la critica prendere sul serio, analizzare, interpretare opere che a noi in fondo sembrano modeste a volte solo perché le abbiamo viste nascere, sporche del sangue e dei muchi della nascita». Ventiquattr’anni più tardi, l’imagine torna ed è ormai investita dal sereno cinismo che domina le riflessioni di un conoscitore tra i più lucidi della narrativa italiana contemporanea, responsabile editoriale di alcuni tra i più grandi successi di vendita realizzati dalla peggiore narrativa degli attuali viventi: «chi ha lavorato molto da vicino con gli scrittori è come l’ostetrica che sa come nascono i bambini, chi legge i libri stampati fa fatica a immaginare che i neonati veri siano diversi da quelli che si vedono nelle pubblicità dei pannolini».
Indipendentemente dal giudizio sui bambini delle pubblicità (prolungando la metafora di Franchini, i fantolini che escono infiocchettati dalle case editrici italiane oggi più illustri non sono nemmeno belli: e figurarsi come dovevano essere in sala parto), la ricognizione dell’ormai esperto editor coglie nel segno quando tratteggia una linea di tendenza. «Lentamente – scrive Franchini – siamo arrivati al punto che una parte della critica letteraria si è quasi specializzata nella direzione di una critica dell’editoria e dei suoi processi, mentre un lavoro che occuperà, a stare larghi, un centinaio di persone in tutta Italia è diventato una professione alla moda». Anche qui la quantificazione è probabilmente erronea, ma l’idea di fondo certamente valida.
Tra le molte professioni intellettuali che in Italia hanno visto negli ultimi tempi diminuire sensibilmente il loro prestigio sociale – si pensi ai professori universitari, la cui reputazione è ormai legata, nell’imaginario collettivo, ad alcuni tra i più controversi, o proprio stomachevoli attori del discorso pubblico civile e politico del Paese – una posizione peculiare ha quella degli editori (e degli editor in particolare: le levatrici della metafora di cui sopra).
Gli editori sono da sempre, e continuano ad essere, il punto di raccordo tra le logiche culturali e quelle meramente commerciali. Ma almeno nel caso di Franchini – che probabilmente è un’eccezione nel quadro generale di frustrazione e velleità che fa da sfondo – questa condizione ancipite par vissuta con grande equilibrio.
Franchini non ha vergogna d’interrogarsi apertamente su che cosa significhi servire la letteratura e il mercato allo stesso tempo, con tutte le eventuali contraddizioni che ciò comporta. Rappresentante di una categoria appartata – chi mai vede in televisione i dirigenti editoriali, a differenza d’altre categorie di nuovi cerretani? – gode di un generale rispetto, anche mercé l’ignoranza diffusa circa il funzionamento del suo mestiere. Più colto della media, l’editor ideale incarnato da Franchini (ma da quanti altri?) è al riparo dallo specialismo vertiginoso e sterile d’altri lavoratori intellettuali. Creativo, ma necessariamente concreto. Vero amante dei libri, più di tutti coloro che si dicono tali e poi i libri non li comprano o li sfogliano distrattamente. Per gli editori, in effetti, i libri sono oggetti fisici di produzione, perlopiù realizzati da una concorrenza che va tenuta d’occhio.
Non è, beninteso, al riparo dai malanni della cultura attuale. Per cui quello che è per gli accademici il deterioramento della preparazione studentesca e per i giornalisti il crollo dei lettori, per chi lavora nell’editoria è il calo della qualità editoriale, che tuttavia Franchini sa vivere col disincanto che manca a molti professionisti di oggi.
«Forse […] i libri che pubblicavano – scrive riferendosi ai colleghi della generazione precedente – erano effettivamente molti di meno, le proposte che arrivavano erano infinitamente meno, venivano quasi certamente sottoposte a un vaglio più accurato e acquisizioni e rifiuti apparivano più motivati. Scrivo “forse” perché ho il sospetto che già allora comunque ci si lamentasse che si pubblicava troppo e che “tutti scrivono e nessuno legge”, frasi che sento ripetere da quarant’anni».
Come chiunque abbia che fare con la cultura degli italiani (come l’etichettava un celebre e impietoso bilancio di Tullio De Mauro), anche Franchini sa bene di vivere in un contesto d’arretratezza e di deficit strutturale. Ma lo descrive con lucidità e compostezza, senza stracciarsi le vesti e quasi facendosi una ragione dello sfascio col tono di chi sa come resistergli, come quando fa due conti su ascesa e caduta degli scrittori d’oggi con poche formule lapidarie. Ecco un’analisi di mercato che è anche una precisa diagnosi storico-letteraria:
«in termini di copie i successi di oggi, anche quei pochi che rientrano in un ambito più letterario, non vendono meno di una volta, ma toccano in un tempo molto più breve quel numero di copie che prima per essere raggiunte richiedevano anni. I successi di oggi sono tempeste tropicali che allagano il terreno, lo sbancano e non lo fertilizzano. Sono incendi allargati dal vento. Dopo la morte di uno scrittore allora cominciava il processo di canonizzazione, oggi comincia l’oblio».
Leggendo Franchini, sorge il sospetto che non appunto gli scrittori o i loro critici siano oggi i rappresentanti più pregiati della cultura italiana, ma alcuni silenziosi e di solito ignorati editori degli uni e degli altri.
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