Non c’è dubbio che l’esito delle recenti elezioni amministrative abbiano molto rinfrancato il Partito democratico. Tuttavia, non va sottovalutata la fragilità strutturale di questo risultato, alla base della quale vi è certamente, e in primo luogo, il basso livello della partecipazione elettorale e in particolare il manifestarsi di quei fenomeni noti come astensionismo «intermittente» e astensionismo «asimmetrico»: che alcuni elettori, e non altri, se ne restino a casa, rappresenta però, esso stesso, un dato politico e a decidere sempre più spesso l’esito delle elezioni, specie quelle locali e regionali, è il livello diseguale della mobilitazione dei diversi segmenti dell’elettorato.
Proprio alla luce di queste considerazioni, è consigliabile una certa prudenza; anche alla luce di un altro elemento: i sondaggi valgono quel che valgono, ma se assumiamo la serie di quelli effettuati negli ultimi mesi, appare evidente la perdurante staticità del livello di consenso che viene attribuito al Pd. Un dato che non sembra schiodarsi da un range che oscilla tra il 18% e il 20%.
Nessuna euforia, dunque: ma che cosa si può fare per rafforzare e valorizzare i segni di ripresa che indubbiamente queste elezioni hanno mostrato? Sarebbe esiziale, per il Pd, pensare che, in fondo, va bene così: è bastata una leadership attenta e dignitosa come quella di Letta, e una certa «pacificazione» nelle guerre interne, perché si potessero cogliere i primi frutti di una nuova fase. Ma è sufficiente?
Che cosa si può fare per rafforzare e valorizzare i segni di ripresa che indubbiamente queste elezioni hanno mostrato? Sarebbe esiziale, per il Pd, pensare che, in fondo, va bene così
Davvero i limiti strutturali di questo partito – di cui tante volte si è discusso e che, ricordiamolo, hanno portato alla disfatta del voto del 2018 (cfr. C. Trigilia, Le elezioni del 4 marzo e la crisi di rappresentanza del Partito democratico, e A. Floridia, Un partito sbagliato, entrambi su «il Mulino», n. 4/2018) possono essere così facilmente archiviati?
A dire il vero, il primo a mostrare di esserne consapevole è stato lo stesso segretario Letta, il quale – a pochi mesi dalla sua elezione – ha annunciato, e con notevole enfasi, il progetto delle cosiddette «Agorà democratiche»: «Sarà il più grande esperimento di democrazia partecipativa nella storia dei partiti!». Un grande progetto di innovazione e sperimentazione politica e organizzativa.
Bene, mi sono detto, quasi sobbalzando, forse qualcosa si muove! Ma guardando i primi passi del progetto un certo scetticismo sembra d’obbligo: chi scrive si occupa da tempo di «democrazia partecipativa» e di «democrazia deliberativa» (A. Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Genealogia e principi, Il Mulino, 2017), e in tutti questi anni si è spesso imbattuto in alcune idee piuttosto approssimative e anche in una frequente serie di equivoci, che spesso sconfinano in una facile retorica «populista» («far contare la gente»). Il rischio che corrono le «Agorà democratiche», da questo punto di vista, è molto elevato.
Il progetto ha preso corpo dal settembre 2021, con la pubblicazione di un regolamento e la costituzione delle prime «agorà», spazi di discussione pubblica di cui il Pd si impegna a «recepire» gli esiti, che devono vedere come protagonisti almeno 10 iscritti e almeno altrettanti non iscritti al partito. Si possono proporre la costituzione di agorà, con un certo numero minimo di aderenti, su un tema anche molto specifico (dentro due grandi assi tematici, l’«L’Italia che vogliamo»; «La democrazia che vogliamo»). Questi gruppi discutono, e formulano proposte: e, come si dice negli intenti programmatici, «quelle che riceveranno maggiore consenso entreranno da gennaio 2022 all'interno della discussione per la costruzione dell’agenda politica del Partito democratico e dell'intero centrosinistra». Ora, il punto è proprio questo: discutere, ovviamente, non fa mai male, ma quale connessione si configura tra il momento della discussione e quello della decisione politica democratica?
Finora il Pd è stato un partito “chiuso”. Le “agorà” mostreranno invece un partito “aperto”, creando spazi di partecipazione in cui tutti possano discutere e votare? Spiace dirlo, ma questa idea della “cessione di sovranità” è del tutto fuorviante
Nell’impostazione delle «agorà» rischiano di trovare alimento alcuni tra i più frequenti equivoci della retorica partecipazionista. In particolare, l’idea che la «partecipazione», «civica» o «dal basso», implichi una qualche «cessione di sovranità». La ratio, dunque, sembra molto lineare: finora, si dice, il Pd è stato un partito «chiuso», in cui decidevano in pochi; con le nostre agorà dimostreremo invece come il Pd possa essere un partito «aperto», creando spazi di partecipazione in cui tutti possano discutere, decidere e votare le loro proposte. Spiace dirlo, ma questa idea della «cessione di sovranità» è del tutto fuorviante. Non ci si può non chiedere, infatti, a che titolo i partecipanti ad una agorà possono essere i beneficiari questa sorta di «devolution». Che legittimazione democratica possono avere 20-40 persone che si auto-selezionano e che avanzano proposte al partito? E perché mai il Partito dovrebbe o potrebbe accoglierle? È vero, si precisa che tali proposte potranno solo entrare nell’agenda, ma come si misura il livello di consenso di cui tali proposte godono? E poi, soprattutto: che senso ha discutere e votare singole proposte? Una proposta di policy acquista un significato solo se inscritta dentro un quadro programmatico più ampio e se contribuisce a definire il profilo ideale e politico del partito. E infatti, se si vanno a guardare sul sito gli argomenti delle prime agorà avviate, non si può non notare il carattere disparato e dispersivo dei temi in discussione: alcuni di carattere più generale, ma molti semplicemente dei micro-temi: ma il programma di un partito potrà mai nascere in questo modo?
Un partito non può essere un mero collettore della «voce» dei cittadini, il megafono di «quel che vuole la gente»: un partito ha il compito di formare l’opinione pubblica, di orientare il dibattito politico, di immettere idee e valori nella discussione pubblica. Certo, all’interno del partito stesso si può e si deve discutere, ci si scontra, si cerca di formare un orientamento comune, si definiscono infine quali siano le linee prevalenti. Ma la chiave di tutto è il circuito tra la discussione pubblica interna al partito e le procedure di legittimazione delle decisioni democratiche. Entrano qui in gioco, per un partito che voglia ispirare le proprie regole interne ad alcuni saldi principi democratici, alcune categorie-chiave della teoria habermasiana della sfera pubblica, quelle che si riassumono nelle immagini del «doppio binario» e delle «chiuse idrauliche», alle quali in questa sede ci possiamo solo limitare a rimandare. Il punto decisivo è che non è ammissibile alcuna immediata trasposizione all’interno delle decisioni legittime di una procedura democratica di tutto ciò che l’«opinione» ritiene di dover e poter sostenere: occorre pur sempre un filtro, una selezione. Vale per la sfera pubblica in generale, e per le istituzioni di uno stato democratico di diritto; ma vale, deve valere, anche per i processi di formazione dei giudizi politici all’interno di un partito.
La chiave di tutto è il circuito tra la discussione pubblica interna al partito e le procedure di legittimazione delle decisioni democratiche
C’è una gigantesca rimozione nel dibattito interno al Pd, la questione del congresso. Sì, «congresso», non la prossima elezione diretta del nuovo segretario. Per vari motivi, e per il calendario politico e istituzionale che attende il nostro Paese, il Pd non potrà tenere un proprio «congresso» prima del secondo semestre del 2023. Ma non è presto per cominciare a parlarne ora, proprio perché non è affatto chiaro che tipo di congresso sarà. Come lo si concepisce e imposta? Ecco un tema su cui, da subito, nel Pd si dovrebbero cominciare a chiarire le idee. Anche perché non tutti conoscono le novità piuttosto ambigue, ma positive, che sono state introdotte nel novembre 2019, attraverso alcune modifiche dello Statuto. Proprio perché poco note, è opportuno soffermarsi sulle modifiche apportate e sulle novità rispetto allo statuto del 2008. Che cosa cambia con le modifiche statutarie del 17 novembre 2019, a seguito dei lavori di una commissione presieduta da Maurizio Martina? Il nuovo testo interviene radicalmente sul vecchio articolo 9 (ora art. 12), è parla di «Scelta dell’indirizzo politico mediante Congresso [espressione inserita nel 2019] ed elezione diretta del segretario e dell’Assemblea nazionale».
Il nuovo testo è molto più analitico e dettagliato rispetto a quello del 2008, distinguendo prima la fase in cui gli iscritti discutono e votano i documenti politici, al termine della quale l’Assemblea nazionale «assume» quei documenti che abbiano ottenuto almeno il 33% del voto degli iscritti e che costituiscono «la base del confronto per la seconda fase del congresso». Qui entrano in gioco i candidati alla segreteria che presentano le loro piattaforme (non è chiaro se ed in che misura coincidenti con quelle presentate nella prima fase) e gli iscritti hanno ancora un ruolo, dovendo scegliere con i loro voto i due candidati che verranno sottoposti alle primarie «aperte»: «Gli elettori che partecipano alle primarie aderiscono all’Albo nazionale delle elettrici e degli elettori direttamente nelle sedi di seggio ed esclusivamente per via telematica e digitale».
Ebbene, è evidente lo sforzo compiuto per aprire uno spazio più ampio alla discussione politica tra gli iscritti; ma questa fase riservata agli iscritti rimane pur sempre subordinata a quella successiva, la fase finale delle primarie «aperte», con la perdurante ambiguità (già ben presente nel primo Statuto) del ruolo giocato dal cosiddetto «Albo degli elettori» (in questo caso inoltre con un’accentuazione del ruolo dell’iscrizione «per via telematica» che non può non suscitare numerosi interrogativi).
Insomma, si è compreso che le primarie «vecchia maniera» offrivano scarsissime occasioni di confronto e di discussione tra gli iscritti; ora si cerca di rimediare, ma alla fin fine tutto continua a «precipitare» verso il momento del voto «aperto», con tutto ciò che questo significa e ha significato nella storia del Pd, come fattore profondo di radicale de-strutturazione degli stessi confini organizzativi del partito e come radicale impoverimento del ruolo degli iscritti e dei militanti.
E allora, in vista delle scelte che il Pd dovrà compiere al più tardi nel 2023, si impone un drastico processo di chiarimento. Si pensa a un congresso che alla fin fine si riduca ancora alle «primarie aperte» per l’elezione diretta del segretario? O si pensa piuttosto di allargare i varchi che il nuovo Statuto fa comunque intravvedere, cercando di avvicinarsi quanto più possibile a un congresso nel vero senso della parola?
Peraltro, va notato, solo con un congresso così concepito acquisterebbe un senso il ricorrente appello rivolto a forze esterne, ad entrare (o rientrare) nel Pd: non possono essere certo le «agorà democratiche», di per sé, ad incoraggiare e promuovere questa vera apertura, di cui il Pd avrebbe un gran bisogno, per uscire dal gioco asfittico delle attuali dinamiche correntizie.
L’idea potrebbe essere quella di «forzare» i limiti e le ambiguità del nuovo testo statutario per cercare di costruire un vero percorso di ricostruzione politica e organizzativa del partito. Ci ripromettiamo, in un prossimo intervento, di esporre una proposta più dettagliata, che possa anche ricomprendere quei progetti di innovazione democratica, di cui le «agorà» potrebbero essere un esempio, ma che tuttavia che devono mantenere fermo il nesso tra il momento della discussione pubblica e quello della decisione democratica, affidata ad organismi dirigenti pienamente legittimi e rappresentativi. In definitiva, la domanda è drastica e molto semplice: il Pd vorrà, una buona volta, abbandonare il suo attuale regime di governance, insieme feudale e plebiscitario, e tornare a funzionare secondo i principi della democrazia rappresentativa?
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