Domani, 3 ottobre, ricorre la seconda «Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione» istituita in tale data in memoria del naufragio che, il 3 ottobre del 2013, al largo dell’isola di Lampedusa costò la vita a 368 persone. Domenica 4 ottobre si celebrerà invece il primo «Giorno del dono» nazionale. È difficile dire quante volte capiti che due anniversari temporalmente così contigui richiamino eventi, pratiche e fenomeni, almeno all’apparenza, così distanti. La Giornata del 3 ottobre si propone di ricordare la prima delle numerose tragedie annunciate che coinvolgono persone migranti e che ormai «consumiamo» quotidianamente su tutti i canali di informazione. Non, ovviamente, la prima accaduta nel canale di Sicilia ma la prima ad aver, come si suol dire, «scosso le coscienze».
Il «Giorno del dono» si propone invece di promuovere la conoscenza e il riconoscimento del valore (sociale, morale, educativo) delle pratiche di dono, di volontariato e di solidarietà civile. Per quanto distanti, le due giornate sono però forse più connesse di quanto possa sembrare. Non solo perché le più diverse pratiche di dono e di volontariato sono quelle che spesso si fanno concretamente carico dell’accoglienza dei migranti che i nostri mari e i nostri muri non riescono a fermare. Compensando con fatica i vuoti, le rigidità e le difficoltà prodotte sui territori da un Welfare State agonizzante e «in ritirata». Colmando con multiformi e spesso creative pratiche di accoglienza e condivisione la voragine prodotta dalle, meno originali, politiche nazionali di non-accoglienza. Di fatto rimpiazzando con doni e gesti – cibo, acqua, vestiti, manifestazioni, passaggi in auto e non sgambetti – la tutela dei diritti fondamentali di coloro i quali portano con sé, e ovunque vadano, la «frontiera addosso», come avrebbe scritto il compianto Luca Rastello. Più che in questo senso, che sembrerebbe prestarsi alla trita e triviale dicotomia tra «buonisti» e «cattivisti», tra femminea emotività e maschia razionalità, il tentativo di ragionare di dono e di migrazione potrebbe articolarsi a partire almeno da altre due prospettive. In prima istanza, si rivela utile a evidenziare che la risposta donativa, per quanto doverosa e preziosa, non può sostituirsi ai compiti e alle responsabilità istituzionali che, nel caso della «gestione» della migrazione, sono, tanto gli uni quanto le altre, molti/e e ampiamente disattesi/e. In secondo luogo, tale tentativo consente di riflettere sulla specifica dimensione di razionalità, e non solo, come si tende a pensare, di emotività, propria del dono. I numerosi studi in materia (etnografici, sociologici, economici, filosofici) hanno reso evidente come non esista un’universalità del dono e come la pratica del dono possa assumere molte forme diverse, sia densa di potenzialità e di rischi e si definisca nel suo farsi concreto. Il dono è di per sé un attraversamento di confini. Il donare, quando non si concretizza in un’azione episodica e/o anonima, è un’espressione dell’identità del donatore e, allo stesso tempo, il riconoscimento di quella del ricevente.
Donare qualcosa, non necessariamente in senso materiale, significa in molti casi porre le basi per aprire un nuovo spazio di relazione, uno spazio personalizzato, flessibile e suscettibile di estendersi nel tempo. Uno spazio molto diverso da quello impersonale, regolamentato e (de)finito nei tempi e nei modi nel quale si sviluppano, ad esempio, le relazioni commerciali. Ma ciò non significa che ogni dono sia realmente gratuito. Al contrario, pochissime forme di dono sono gratuite non solo perché, come sappiamo, ogni dono richiede di essere ricambiato, ma anche perché, come sperimenta spesso chi fa volontariato, chiunque doni riceve sempre, purché lo sappia riconoscere o sia disposto ad ammetterlo, «qualcosa» in cambio. Il valore del dono, secondo Marcel Mauss, risiede proprio nella sua capacità di produrre, e sostenere nel tempo proprio grazie alla dinamica del dono/contro-dono, relazioni tra individui, gruppi ed entità politiche.
La razionalità del dono ha dunque a che fare con l’interesse, ma eccede il semplice calcolo del dare/avere, non è solo una razionalità calcolante. La razionalità del dono deriva dal riconoscimento del nostro essere interdipendenti, della comune vulnerabilità rispetto alle vicende del mondo. L’interesse risiede primariamente nella relazione che, tramite il dono e il contro-dono, si crea e si alimenta. Quella del dono è una strategia che si proietta nel futuro, che rinuncia alla sicurezza dell’isolamento e risponde al rischio di conflitto e contaminazione insito in qualunque relazione attraverso una dinamica di reciprocità, cooperazione, mutuo riconoscimento.
Forse se almeno qualcosa della razionalità del dono riuscisse a penetrare anche nelle stanze nelle quali faticosamente, penosamente, con immane ritardo e senza finora una grande capacità di guardare al futuro, se non al proprio (in senso elettorale o nazionale), si decidono le strategie in materia di migrazione, forse si verserebbero meno lacrime e si agirebbe in modo più compiutamente razionale.
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