Nel dicembre 2017 "JK", un lavoratore autonomo polacco, e il suo partner pubblicarono sul proprio canale di YouTube un video musicale natalizio volto a promuovere la tolleranza nei confronti delle coppie omosessuali. Due giorni dopo, JK ricevette un'e-mail dal suo committente, l'emittente governativa Telewizja Polska (TP), che di fatto metteva fine al suo contratto con effetto immediato.

JK era stato assunto da TP come lavoratore autonomo per circa sette anni, con una serie di contratti a breve termine per la produzione di materiale montato per trailer audiovisivi. L'ultimo di questi contratti (della durata di un mese) era stato firmato, dopo un esame e una valutazione positiva, solo due settimane prima. JK fece quindi causa a TP, lamentando una discriminazione diretta a causa del suo orientamento sessuale. Purtroppo per lui, la legislazione polacca contro la discriminazione era interpretata dai tribunali nazionali come una tutela esclusiva dei lavoratori dipendenti (cioè con contratto di lavoro subordinato) e non dei lavoratori autonomi.

Fortunatamente per JK, però, il tribunale polacco decise di rinviare la questione alla Corte di giustizia dell'Unione europea per verificare se la legge nazionale fosse in linea con l'articolo 3(1)(a) e (c) della Direttiva quadro sulla parità di trattamento dell’Ue (2000/78). Questa disposizione, infatti, si applica espressamente a "tutte le persone […] per quanto attiene […] alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo".

Nonostante questa formulazione piuttosto chiara, la Polonia era uno dei pochi Paesi della Ue a ritenere che i lavoratori autonomi non rientrassero nel campo di applicazione della normativa antidiscriminatoria, lasciando la regolazione dei loro contratti di lavoro alla piena libertà contrattuale delle parti (e quindi in balia della parte economicamente e socialmente più forte). La Polonia non era comunque sola in Europa: anche alcuni sistemi giuridici che di solito prendono più seriamente i diritti umani e il diritto antidiscriminatorio hanno finora escluso i lavoratori autonomi dalle tutele contro la discriminazione, basti pensare alla contestata sentenza della Corte Suprema del Regno Unito del 2011 nella famosa causa Jivraj contro Hashwani.

Il 12 gennaio 2023, la Corte di giustizia Ue ha deciso che i lavoratori autonomi sono effettivamente coperti dal diritto antidiscriminatorio europeo

Il 12 gennaio 2023, la Corte di giustizia Ue ha deciso, invece, che i lavoratori autonomi come JK sono effettivamente coperti dal diritto antidiscriminatorio europeo (Sentenza C‑356/21, J.K. contro TP S.A.). La Corte ha chiarito che la Direttiva sulla parità di trattamento è "destinata a coprire un ampio ventaglio di attività professionali, ivi comprese quelle svolte da lavoratori autonomi al fine di assicurare il loro sostentamento" con l’esclusione solamente delle attività “consistenti in una mera fornitura di beni o di servizi a uno o a più destinatari".

La Corte ha concluso che poiché “l’attività svolta dal ricorrente costituisce un’attività professionale reale ed effettiva, esercitata personalmente in modo regolare a beneficio di uno stesso destinatario, che gli consente di accedere, in tutto o in parte, a mezzi di sostentamento, la questione se le condizioni di accesso a una siffatta attività rientrino nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78 non dipende dalla qualificazione di tale attività come lavoro «dipendente» o «autonomo». Secondo la Corte di Giustizia, “l’ambito di applicazione di tale disposizione e, pertanto, quello della direttiva, devono essere intesi in senso ampio”.

Nel giungere a queste conclusioni, la Corte ha aderito alle conclusioni dell'Avvocata Generale. Quest’ultima aveva altrettanto esplicitamente sottolineato che la Direttiva “osta a una normativa nazionale che consente che sia rifiutata la stipulazione di un contratto di diritto civile avente ad oggetto la prestazione di servizi, nell’ambito del quale il lavoratore autonomo è tenuto a svolgere un lavoro personale, qualora il rifiuto sia motivato dall’orientamento sessuale di tale persona".

Questa sentenza, che non esitiamo a definire “storica”, chiarisce che il diritto antidiscriminatorio dell'Unione si applica a tutti coloro che svolgano una qualsiasi “attività di lavoro personale” per un'altra parte a prescindere dal tipo di contratto e dalla sua qualificazione giuridica: i lavoratori autonomi sono altrettanto protetti che i subordinati. Il concetto di "lavoro personale" (la cui genesi è ampiamente discussa nel parere dell'Avvocata Generale) è stato sviluppato proprio per estendere l'ambito di applicazione personale del diritto del lavoro e del diritto antidiscriminatorio oltre i sempre più inadeguati confini del contratto di lavoro subordinato, idea oltremodo urgente visto il crescente ricorso a forme di lavoro non standard e al (finto) lavoro autonomo nelle nostre economie.

Il concetto è già stato utilizzato – anche se in modo selettivo e frammentario – dalla Commissione europea, per garantire l’accesso dei lavoratori autonomi alla contrattazione collettiva, altro tema sul quale in passato abbiamo sollevato le vistose aporie di una concezione protettiva esclusivamente diretta al lavoro subordinato, e anche in recenti proposte legislative. Abbiamo avanzato e sostenuto il concetto di “lavoro personale” per superare le eccessive restrizioni del campo di applicazione personale delle tutele nazionali e sovranazionali del lavoro. La sentenza che abbiamo descritto sopra, però, per quanto ne sappiamo, rappresenta la prima volta che il concetto di "lavoro personale" viene riconosciuto da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Si tratta di uno sviluppo giuridico importantissimo. Non soltanto dimostra la validità e l'utilità dell'idea di "lavoro personale". Ancora più importante è che la Corte potrà iniziare ad ampliare l'ambito di applicazione di tutti gli strumenti legislativi formulati in modo simile alla Direttiva Ue sulla parità di trattamento. Non solo. La sentenza applica il concetto di “lavoro personale”, e la relativa prospettiva di tutela, a un caso di cessazione di un contratto di lavoro non subordinato eseguito personalmente dal lavoratore. È, questo, uno snodo fondamentale che potrebbe sfuggire ai non addetti ai lavori.

La teoria del “lavoro personale” si differenzia totalmente da altre proposte di riforma del lavoro che si basano sull’idea che ai lavoratori autonomi vadano estese solo alcune, limitate, tutele. Quest’ultimo è un approccio già intrapreso da diversi legislatori in passato: in Italia, i lavoratori parasubordinati sono stati storicamente protetti da un numero eccessivamente limitato di tutele e solo recentemente il legislatore ha tentato di porvi rimedio. Nel Regno Unito, ai cd. “workers”, una categoria “intermedia” tra lavoratori subordinati e autonomi, sono state estese maggiori tutele rispetto alla parasubordinazione italiana, ma con la fondamentale esclusione della normativa sul licenziamento illegittimo.

La mancata protezione contro il licenziamento è un elemento molto frequente delle proposte di parziale tutela del lavoro autonomo

La mancata protezione contro il licenziamento è un elemento molto frequente delle proposte di parziale tutela del lavoro autonomo, come se, per questi lavoratori, perdere il lavoro per un arbitrio dell’altra parte fosse meno dannoso o importante che per i lavoratori subordinati. Non è questa l’idea alla base del concetto di “lavoro personale”: quest’ultimo è stato avanzato per estendere al lavoro autonomo ogni protezione garantita dal diritto del lavoro, non semplicemente più o meno generose selezioni di tutele. Non si tratta di creare un nuovo genus di lavoratore tra autonomia e subordinazione. Come detto, è una strada tentata in passato con risultati che non possiamo ritenere soddisfacenti: si tratta di muoversi invece nella prospettiva dell’universalismo delle protezioni lavoristiche.

La sentenza della Corte di Giustizia Ue nella causa C‑356/21, J.K. contro TP S.A., è storica per questo motivo. Aprendo il concetto di “lavoro personale”, la Corte indica una possibile strada verso riforme che consentano finalmente al diritto del lavoro di trascendere effettivamente i confini del contratto di lavoro subordinato – andando davvero au-délà de l'emploi, per usare un'espressione coniata da Alain Supiot e dai suoi colleghi nel 1999.