Devo premettere che sono stato da sempre molto colpito, favorevolmente, dal metodo di governo di Angela Merkel. L’ho scritto anche su queste pagine virtuali della nostra rivista. Un pragmatismo che non ha mai rinunciato a una certa idea di come si sta al mondo, che spinge a non sacrificare, in alcuni momenti, i valori in nome della politica, forte del motto che Lutero usò a Worm di fronte all’imperatore: «Qui sto fermo, non posso fare altrimenti». Tuttavia, il mondo nel 2005, quando la cancelliera entrò in carica, era molto diverso da quello del 2021, quando dovrebbe tornare a essere «semplicemente» una cittadina della Repubblica federale. Nella vicenda afghana questa trasformazione è palese: un intervento militare ereditato dal precedente cancelliere Schröder che lei ha sempre difeso e che oggi si conclude con le immagini che arrivano da Kabul che mostrano il ritorno dei Talebani. E con la cancelliera costretta ad ammettere che sì, abbiamo fatto errori di valutazione. Ma ora l’importante è salvare vite. La solita Merkel, verrebbe da dire: riconoscere l’errore e andare avanti. Pragmatismo e valori, comunque tantissimo in un’Europa dominata dalla totale inconsistenza dei suoi leader.
Stavolta però non basta. Perché l’«errore» di valutazione è enorme, quasi a pensare che si tratti di un riconoscimento utile solo a evitare di affrontare la gravità della situazione. Ed è per questo che, per la prima volta, la cancelliera mi è apparsa incredibilmente invecchiata, come una calciatrice arrivata ormai di fronte al ritiro. Ha ancora piedi buoni e qualche giocata è sempre gradevole a vedersi ma lei stessa capisce che non basterà un lampo a tirarla fuori da guai. Non stavolta. E lei stessa sembrava esserne consapevole nella sua uscita stampa di qualche giorno fa. Perché, fuori di metafora, a ben guardare, esiste una linea di continuità tra il 2001 e il 2021 che ci dice molto del futuro verso il quale siamo lanciati. E che la cancelliera sembra non voler affrontare. Per rispetto al suo successore che tra poco si insedierà alla cancelleria? Francamente una scelta un po’ discutibile, vista la gravità della situazione e la radicalità con la quale le relazioni internazionali stanno cambiando.
Ha capito che America first non era solo uno slogan elettorale ma la codificazione di una nuova realtà politica, avviata quantomeno a partire dalla reazione americana agli attentati del settembre 2001
Angela Merkel è stata la prima a riconoscere come il rapporto con gli Stati Uniti fosse cambiato. Non solo per la presidenza Trump. Aveva avuto a che fare anche con Bush, che iniziò la campagna in Afghanistan, e Obama, con cui il rapporto personale era ottimo ma politicamente segnato anche da momenti burrascosi tra le due capitali (sulla gestione della crisi economica, ad esempio, oltre che per la vicenda dello spionaggio). Ha capito che America first non era solo uno slogan elettorale – magari di un personaggio fuori dalle righe, pericoloso e, però, ormai neutralizzato come sembra credere, tra i tanti, anche una delle sue delfine, Ursula von der Leyen oggi alla guida della Commissione europea, che ha incredibilmente salutato l’elezione di Biden come «il ritorno degli Usa» – ma la codificazione di una nuova realtà politica, avviata quantomeno a partire dalla reazione americana agli attentati del settembre 2001. Vale a dire proprio con la guerra in Afghanistan e l’attacco contro il regime dei Talebani. Se vent’anni fa la rottura della «globalizzazione» anni Novanta e post Guerra fredda era stata ammantata dalla retorica neoconservatrice dell’esportazione della democrazia (con l’immancabile corollario sulla liberazione delle donne afghana dal burqa), in questi giorni il presidente Biden ha chiaramente detto che gli Stati Uniti non hanno (più) interesse a combattere quella guerra. E, perciò, come l’hanno iniziata così la concludono. La reazione nel mondo tedesco è stata simile a quella di chi riceve uno schiaffo in pieno volto. Il capogruppo della Commissione esteri Norbert Röttgen, politico conservatore, integerrimo e molto intelligente, ha parlato di errore, di scelta sbagliata. Ha accettato di intervenire tra i primi, proprio in virtù del suo ruolo. E alla giornalista che molto opportunamente lo incalzava, continuava a ripetere che la decisione americana era sbagliata. Che è poi la premessa di quello che dirà, qualche ora dopo, anche Merkel: errore di valutazione. Röttgen rappresenta infatti quella parte politica convinta che la partecipazione alla missione in Afghanistan (con i suoi costi, anche in termini di vite) consegni agli alleati, quindi anche ai tedeschi, un diritto di parola, di intervento. Se la missione era di costruire lo Stato e la democrazia in Afghanistan, allora non è conclusa, non possiamo andar via. A parte il fatto che la trattativa con i Talebani gli americani l’hanno aperta da molto tempo, quando gli Stati Uniti dicono che per loro la priorità non è mai stata quella – come ha fatto Biden – gran parte del mondo politico tedesco è parso risvegliarsi da un sogno, con un potente schiaffo in pieno volto.
E Angela Merkel? Lei che cinque anni fa aveva ammonito gli europei a dover prendere in mano il proprio destino questa volta non sembra avere argomenti diversi dalla maggioranza della politica tedesca. «Abbiamo fatto un errore di valutazione». Davvero? E quale? Francamente credere a una stima errata delle forze talebane è abbastanza discutibile. Come detto, gli Stati Uniti trattano con i Talebani da molto tempo e lo scorso anno si è arrivati a un accordo. Non si tratta con chi non ha forza. Se oggi l’esercito afghano si è sciolto come neve al sole, non è detto che sia un male per le cancellerie europee: l’alternativa sarebbe stata una guerra civile, magari a bassa intensità. O magari un conflitto strada per strada, casa per casa. E a un certo punto il governo di Kabul avrebbe chiesto aiuto a Stati Uniti ed Europa. Armi, droni o l’uso dell’aviazione. O qualcosa di più. Scenario non malvisto da quanti ancora oggi credono alla retorica neoconservatrice del 2001. E la stessa dimensione «politica» che i Talebani stanno mostrando in questi giorni, e che manifesta tutta la differenza con la presa di Kabul nel 1996, rivela che gli accordi, almeno dal punto di vista di Washington e almeno per ora, a qualcosa sono serviti.
Dunque, di quale errore parla la cancelliera? In realtà, se errore c’è, risale al 2001 non al 2020-2021. E che coinvolge tanto chi aveva ceduto alla retorica neoconservatrice tanto una parte del movimento pacifista: non possiamo esultare proprio quando si palesano tutte le contraddizioni e le falsità della scelta del 2001.
Proprio perché è alla fine del suo mandato e non è in campagna elettorale, Angela Merkel avrebbe dovuto continuare l’operazione che ha inaugurato anni fa mettendo gli europei di fronte alle loro responsabilità
Proprio perché è alla fine del suo mandato e non è in campagna elettorale, Angela Merkel avrebbe dovuto continuare l’operazione che ha inaugurato anni fa mettendo gli europei di fronte alle loro responsabilità. Avrebbe dovuto chiarire i termini della questione: cioè che il mondo che ci aspetta è fatto di nazioni che perseguono i loro interessi, che il sogno degli anni Novanta è vorbei, passato. Non è un caso che gli Stati Uniti hanno trattato con i Talebani, con i quali ora discutono Russia e soprattutto Cina. Una considerazione internazionale che nel 2001 i cosiddetti «studenti islamici» potevano solo sognare. E che l’Europa deve scegliere come intervenire, imparando innanzitutto a definire i propri interessi, cosa per nulla scontata visto che spesso non riusciamo a metterci d’accordo nemmeno su quelli. Ancora in queste ore, sul salvataggio degli afghani che hanno collaborato con le forze armate, con la stampa e con le Ong (una questione che in altri tempi sarebbe stata definita d’onore), l’Europa sta lasciando quasi tutta l’iniziativa agli Stati Uniti: loro parlano e trattano a Doha, loro mettono in sicurezza l’aeroporto, a loro si deve la maggior parte del lavoro sul campo. Mentre l’Europa potrebbe fare di più, cominciando ad avere un ruolo, perlomeno a immaginarlo, nella politica internazionale. Ad avere personale che tratta e una logistica che sta sul campo. A dare quantomeno un contributo in questa direzione dovrebbe essere proprio la Germania e le sue istituzioni.
È ovvio che i Paesi europei hanno limiti strutturali che non possono colmare in una estate, ma Angela Merkel è stata, nei suoi sedici anni di cancellierato, spesso capace di indicare una strada, di anticipare cambiamenti, quantomeno di suggerire una riflessione. E al contempo di cercare sempre una soluzione «multilaterale», di coinvolgere tutti, di provare a tenere le parti sempre al tavolo. E questo, ormai, non basta più. La presa di Kabul da parte dei Talebani mette l’Occidente a nudo ma in modo diverso: se gli americani completano la codificazione di America first avviata nel 2001 (potranno discutere del come e di altri dettagli ma indicano chiaramente una dottrina politica), le cancellerie europee, per ora, masticano amaro, senza davvero comprendere gli effetti di lungo periodo della scelta statunitense. E vedere la cancelliera ripetere le giustificazioni, un po’ patetiche, di mezza Europa rende evidente la fine del suo cancellierato. Ma può dirsi conclusa anche la sua politica: il pragmatismo può essere una virtù ma a lungo andare rischia di diventare cinismo o opportunismo. E Angela Merkel, va detto, non è né cinica né opportunista. Insistere su questa strada potrebbe anche consegnarci all’irrilevanza, più di quanto il vecchio continente non sia già. Capiremo se dalle elezioni uscirà o meno una leadership capace di andare oltre l’eredità di Merkel.
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