Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Ucraina, ma anche Yemen, Afghanistan, Kurdistan, Myanmar. E poi buona parte dell’Africa e alcune regioni dell’America Latina e del subcontinente indiano. In tutti questi luoghi sono in corso delle guerre – al plurale, sì, perché sono assai diverse – ma non mi risulta sia stata avviata una discussione paragonabile a quella per l’Ucraina. E cioè che occorre intervenire per bloccare l’aggressore (nel caso specifico, Putin). Perché per altri conflitti non ci ha sfiorato la stessa idea?
Vorrei partire da qui, mentre il dibattito pubblico sembra una lotta a chi grida più forte. Con un paio di premesse: non sono uno storico, al massimo un appassionato di storia; da una trentina d’anni faccio il giornalista e questo clima l’ho già vissuto più volte. E, cosa più importante, non ho la minima idea di come reagirei se fossi un cittadino di Mariupol.
Dunque perché, nel caso della guerra in Ucraina, dovrebbe essere giusto appoggiare militarmente l’aggredito? La risposta “perché è aggredito” non regge, a meno che non si pensi che solo in questo caso siano chiare le responsabilità, mentre negli altri casi le colpe siano equamente distribuite e dunque non si possa scegliere. Possiamo eccome, ma le autorità politiche e i media hanno deciso che non si deve andare troppo per il sottile. Dunque ora c’è solo calcolo, nessuna valutazione umanitaria – a meno che non si pensi che uno yemenita valga meno di un ucraino.
Vengono tirati in ballo paragoni storici. Nessuno mi convince, ma ne aggiungo uno anch’io, con una citazione: “La neutralità assoluta doveva condurci ad assumere un atteggiamento di nirvanica impassibilità o di cinica indifferenza dinnanzi a tutti i belligeranti”. Poco più di cent’anni fa, chi scrisse queste parole? Il direttore dell’"Avanti", Benito Mussolini. Il famoso editoriale sulla “neutralità attiva” del 18 ottobre 1914 segnò la cesura definitiva con i socialisti, il passaggio al “partito” degli interventisti. Sappiamo come è andata.
Ma qui mi interessa sottolineare un altro aspetto: la guerra spacca le comunità – in quel caso quella socialista – perché ciascuno mette sui piatti della bilancia valori, emozioni, calcoli che non sono e non potranno mai essere assoluti. Allora, ad esempio, c’era chi pensava che la guerra fosse un macello inutile di proletari al fronte e chi invece sperava potesse distruggere gli odiati imperi. Senza la spaccatura socialista l’Italia sarebbe rimasta neutrale? No, il complesso militare spingeva per intervenire. La partecipazione italiana alla Grande guerra ha fatto bene alla democrazia? No, da tutti i punti di vista. Ma questi calcoli siamo in grado di farli ora, un secolo dopo.
Immagino l’obiezione: nessuno vuole inviare i “ragazzi del ‘99” a Kiev, oggi il governo Draghi, con una maggioranza larghissima, ha deciso di mandare armi all’esercito ucraino. Vero, però ci mancano alcuni dati. Quali armi manderà? La lista – fa sapere Amnesty International – è secretata. Possiamo intuirne le ragioni ma non giustificarle: un blindato è diverso da un giubbotto antiproiettile. Più blindati – sto semplificando molto, lo so – o più giubbotti antiproiettile disegnano una risposta militare differente. E qui c’è il groviglio: chi può assicurare che 1) gli aiuti militari arrivino nelle mani giuste; 2) gli aiuti militari non siano usati per compiere crimini di guerra; 3) gli aiuti militari accorcino la guerra?
Sul primo punto la descrizione unanime dei media non lascia scampo: l’Ucraina è accerchiata. La storia dell’Afghanistan, per fare l’esempio più recente, chiarisce che nessuno può garantire che uno Stinger fornito dalla Cia ai mujaheddin in chiave anti-sovietica non finisca nelle mani dei taliban per colpire gli elicotteri Usa. Un’inchiesta del "New York Times" stima che il 50% delle armi in Iraq e Afghanistan sia finito sul mercato nero, quindi potenzialmente in mani nemiche. Quanto poi alle armi usate per compiere massacri o che, involontariamente, contribuiscano ad allungare la guerra, nessuno può dare rassicurazioni. Però una cosa la sappiamo: la guerra di Putin in Ucraina ha avuto l’effetto di spingere molte nazioni ad aumentare le spese in armamenti: per esempio la Germania, per voce del cancelliere Scholz, ha promesso di superare il 2% del Pil nel settore difesa. Secondo voi le imprese che vendono armi hanno interesse ad aumentare o diminuire le guerre?
La guerra di Putin in Ucraina ha avuto l’effetto di spingere molte nazioni ad aumentare le spese in armamenti: per esempio la Germania ha promesso di superare il 2% del Pil nel settore difesa
Un’altra obiezione ricorre a un paragone storico: se gli Alleati non avessero inviato armi ai partigiani avremmo ancora Mussolini a Salò. Ribadito che bisogna andarci piano coi paragoni storici, rispondo innanzitutto con una battuta: avete mai visto un partigiano alla guida di un carro armato? Ovviamente no, se non nelle sfilate dopo la vittoria. (In realtà pare ci sia stato un unico caso di carro armato abbandonato dai fascisti e catturato dai partigiani piemontesi.) Il ruolo dei partigiani italiani è stato fondamentale per fiaccare nazisti e fascisti anche dal punto di vista militare ma come guerriglia, non certo come fronteggiamento tra eserciti, perché sarebbe stato asimmetricamente sfavorevole alla Resistenza. C’era anche una ragione strategica nella gestione parca degli aiuti militari stranieri ai resistenti italiani: li si voleva armare ma fino ad un certo punto, per non far prevalere la componente comunista. Può dunque reggere ancora il confronto fra la Seconda guerra mondiale (Hitler, Mussolini, Stalin, la Shoah…) e l’invasione russa dell’Ucraina?
La discussione – anche nel mondo progressista – sulla necessità di armare una delle parti in guerra fu molto forte durante l’assedio serbo di Sarajevo. Ma l’elemento decisivo per rompere l’assedio furono i bombardamenti Nato alla Serbia
La discussione – anche nel mondo progressista – sulla necessità di armare una delle parti in guerra fu molto forte durante l’assedio serbo di Sarajevo. La città bosniaca, letteralmente circondata dalle alture nelle mani dei serbi, fu stritolata per quattro interminabili anni. Fornire aiuti militari ai bosniaci sembrava per alcuni l’unica soluzione per rompere quell’assedio. Nessuno, anche in questo caso, è in grado di dire come sarebbero cambiate le cose, se l’agonia della città fosse durata meno. L’elemento decisivo per rompere l’assedio di Sarajevo furono i bombardamenti Nato alla Serbia, che disarticolarono il suo esercito e le sue milizie. Quanto ai crimini di guerra compiuti durante le guerre nella ex Jugoslavia, il Tribunale speciale ha processato 161 persone, condannandone 103. E tra i condannati il 70% erano serbi, il 20% croati, il 10% bosniaci.
Torno alla domanda di partenza. Perché armare la resistenza ucraina anti-Putin? Non c’è alcuna prova che possa dimostrare che sarebbe utile per far finire la guerra. Perché armare l’Ucraina e non le altre nazioni (o parti della popolazione) aggredite? Fare la classifica dei cattivi è ipocrita. Contano gli interessi? Difendiamo l’Ucraina per difendere le nostre docce calde, la possibilità di navigare liberi su Internet? Se guardiamo solo al gas che arriva attraverso gli oleodotti – potrà sembrare cinico – non conta niente se l’Ucraina è libera o soggiogata da Mosca. Perché il rubinetto del gas ce l’ha la Russia. Quindi il problema sta al Cremlino. E chi grida oggi “abbasso Putin” è lo stesso che ieri ci faceva affari.
Alla vigilia dell’invasione di Putin Federico Fubini scriveva sul "Corriere della Sera" che “è chiaro ormai che quello del gas fra Russia e Unione europea è un matrimonio infelice da cui le parti non sanno come liberarsi […] poiché dal bilancio di Mosca undici rubli ogni cento sono spesi per l’esercito che oggi aggredisce l’Ucraina, senza capirlo gli europei contribuiscono finanziariamente a un’azione di guerra che viola il diritto internazionale”. Una conferma delle nostre responsabilità, della nostra miopia, del nostro egoismo. Chiedere ora di fermare una guerra – come scritto da Fubini – foraggiata con i nostri soldi spendendone altri per aggiungere armi continua ad apparirmi contrario al buon senso. E suicida.
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