(Fresca. Polverosa. Indurita. Bagnata. Gessosa. Compatta.) Ogni neve è un suono, ogni suono porta a valle una sciata. (Umida. Farinosa. Primaverile. Artificiale. Asciutta. Schiacciata.) Nemmeno gli elementi indispensabili alla vita sono capaci di tutte le qualità che sprizzano dal prodigio chimico dell'acqua con l'aria. (Barrata. Trasformata. Programmata. Marcia. Appiccicosa. Ghiacciata.) La neve scricchiola, sussurra, muggisce: rumori che suonano armoniosi quando si schiude alle orecchie il taglio delle lamine, la carezza della sciolina. E i patiti della discesa riconoscono a memoria la gamma di sfumature che dalla fragranza friabile del manto a mezzogiorno si irrigidisce nelle linee croccanti delle otto di mattina, fino a esplodere nello sciabordio delle vesciche scure d’acqua alla chiusura degli impianti.
È la mia prima volta a Cervinia. Alloggio proprio sotto i 4.478 metri della montagna, e nel rimirarla comprendo di essere qui perché attratta dal suo suono perfetto. Volevo vederlo questo Matterhorn, appurare il carisma di un nome che evoca la forza di consonanti piantate in bocca, i venti dell'aspirata e tintinnii di erre che diventano sottili armonici sulla nasale finale; rappresentazione fonetica esatta di un'emblematica geometria. Lui è proprio così. Annunciato da una larga base a prato (matt) e concluso da un'inconfondibile punta a corno (horn), appare come una possente radice seminata nel ventre generoso della Valle d'Aosta milioni di anni fa, su cui si innalza una torre capace di reggere al tempo di sferzanti intemperie.
Stefano Pizzini è istruttore nazionale di sci alpino, un maestro dei maestri insomma, ma pure insegnante per comuni mortali come me, presso la Scuola di sci del Breuil. Difficile non amare la musica se si ama lo sci. Perché ogni sciata ha un suo ritmo, le tracce sulla neve sono frequenze cardiache, danza di curve costruite o casuali, coreografia che racconta la nostra presenza sulle lame, rappresentazione grafica di una sensibilità che ragiona nei piedi.
Stefano ama il progressive. Scendiamo le piste assaporando ogni modulazione, come esplorando una suite dei Genesis. Il maestro mi indica un branco di camosci e in cielo un'aquila, mi invita a ripassare di qui quando le marmotte si danno appuntamento, tra il 20 e il 25 aprile. Quale sfondo musicale per queste piste, conosciute per la loro eccezionale lunghezza, come la numero 5 che corre fino a Cervinia, o come la 1 che arriva a Valtournenche, pennellando dolci saliscendi che ti impegnano in una sciata quasi sempre “in posizione”, Stefano porta dentro di sé In the land of grey and pink dei Caravan, un percorso di note quieto, dal passo uniforme scandito da un'imperturbabile sezione ritmica, con qualche scodinzolio di porte triple ascoltabile negli improvvisi cambi di tempo a chiusura di strofa. Il lungo assolo conclusivo allarga la vista alla contemplazione: il privilegio di guardare negli occhi dozzine di cime che si estendono dal Gran Paradiso al Monte Bianco, sino al Rosa, è emozione bianca.
Su questi trecentocinquanta chilometri lastricati dai cristalli regna la numero 7, detta “Ventina”: si snoda per undici chilometri, scendendo dai 3450 metri del Plateau Rosa sino ai 2050 metri di Cervinia. Per il suo andamento nobile e la sontuosa corona alpina ammirabile alla partenza, Stefano la scia con l'audio player mentale di The court of the Crimson King: la scalata costante dei couplet, i picchi e i burroni del refrain, la sua alternanza di pieno e di vuoto nei piani sonori sono spazializzati nella sequenza di un veloce muro iniziale, poi un falsopiano, quindi una serie di brevi pendenze intervallate da morbide pause pianeggianti. Imprevedibili i King Crimson, come le diverse varianti di questa pista che si immette infine in un bosco: Ian McDonald suona il suo solo di flauto da cui sbuchiamo con il fiato sospeso – onirica la coda musicale, ghiacciata la pista - sulla rampa finale.
Avvinta come sono da questa lettura della musica e della sciata, dimentico che ogni bellezza ha un prezzo. Stefano mi mostra il rovescio della medaglia e mi racconta i numeri necessari a un divertimento che è sì un business milionario, ma anche un'impresa dove le voci di spesa sono voragini. Basti pensare che avere la neve bella soda ogni mattina costa 500.000 euro per ogni “gatto” acquistato. La seggiovia a 6 posti del Pancheron vale 12 milioni di euro, 7.000 euro è il prezzo di ogni sedia, che pesa 7 quintali. Il solo cavo dell'impianto ammonta a 47 tonnellate: un'inezia se si pensa che la bobina di ognuno dei 4 cavi della funivia appena inaugurata di tonnellate ne raggiunge 70. Anche la tecnologia invisibile che permette l'innevamento artificiale comporta numeri impensabili: 1.000 litri di acqua servono a produrre appena 2,6 metri cubi di neve, gli sparaneve, il cui costo unitario è di circa 70.000 euro – e intanto ne conto 23 ai bordi di una pista –, sono caricati da tubi interrati a una notevole profondità, poiché facendo capo a sofisticati congegni elettronici per la miscelazione di acqua e aria a una temperatura infallibile, non possono rischiare di gelare.
La tecnologia si fonde alla natura, e per oggi decido di prestare attenzione anche ai brontolii meccanici innervati nei silenzi bianchi come protesi mostruose, ma organiche: il didgeridoo della fune che tira la seggiovia, il gorgoglio si intensifica, pulsante come un putipù, ed erompe in sussulti al passaggio del pilone, che risuonano come quattro, o otto, colpi di cassa. Scendo. Scio. Shhh: scivolo. Come le spazzole sui piatti di una batteria jazz. Crrrrr. Derapa un poco la crécelle delle code, sulla pista gibbosa e pendente. Fffff... conduco infine le ultime curve nel solco della sciancratura, sono rapidi fioretti, mentre la puntina gira sul disco frusciando. La musica della neve fiocca al ritmo dell'ingegno umano.
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