Il mio pezzo sul Mulino, scritto durante il processo di avvicinamento a questo turno di elezioni comunali, insiste sulla opportunità offerta da questo voto per ripristinare un buon raccordo tra esercizio della democrazia rappresentativa e fiducia nel governo del territorio. Ribadisco il punto: i comuni sono oggi l’unico baluardo possibile della democrazia. Dai comuni deve ripartire la fiducia nei meccanismi della democrazia indiretta, in attesa di eventi nuovi che rendano più credibile la grande politica, e delle riforme comunque necessarie per far funzionare meglio la democrazia parlamentare e il governo del paese.
La domanda è adesso se questa opportunità sia stata colta. La lettura di dati così ricchi e per molti versi controversi non può certo determinare una risposta univoca. Da un lato, i militanti del M5S possono legittimamente asserire che questa storica nottata, segnata dalla conquista di due amministrazioni-simbolo come Roma e Torino, e dalla vittoria in 19 ballottaggi su 20, consacra il movimento come l’unico attore capace di esprimere una «alternativa di governo», espressione un tempo partitocratica oggi diventata un mantra nelle interviste degli esponenti del partito di Grillo.
Tuttavia, cittadini e osservatori più scettici sulle prospettive di governo del partito oggi vincitore si pongono una questione, anch’essa legittima: può un partito oramai capace di assicurarsi ovunque in Italia oltre un quarto dei voti, affidarsi a un reclutamento così «casuale»? Può il partito che impone la prima sindaca della capitale e che sconfigge il Pd in un’altra città-simbolo per la sinistra italiana, rimanere così lontano dai ballottaggi a Milano, dove nessun dei partiti maggiori ha avuto il coraggio di schierare un proprio candidato, oppure a Napoli, dove alla faccia di tutto quello che è successo negli ultimi cinque anni, il tempo sembra essersi fermato alla sfida tra De Magistris e Lettieri?
Sulla sconfitta del Pd di Renzi diranno le analisi dei prossimi giorni. Ma fin da ora è necessario evidenziare la drammatica assenza di azione sul territorio: il triste ritorno di una tenuta nella ridotta appenninica – simboleggiato dalla conferma di Merola a Bologna al cospetto del recupero da parte del centrodestra a Novara, Trieste, Pordenone, Savona, Grosseto e Brindisi – farà probabilmente meno notizia rispetto alle brucianti sconfitte metropolitane subite dalle due candidate del M5S. Ma è il segno di un fallimento della gestione del partito nel territorio e forse – questo ce lo diranno gli studi dettagliati – di alcuni leader locali e delle loro politiche. Ancora più netta la difficoltà a operare nel territorio da parte del centrodestra, giunto dilaniato al primo turno e incapace di competere nelle città metropolitane. E se il computo complessivo delle spoglie conquistate alla fine dello scrutinio finisce per non rendere la sconfitta del centrodestra più bruciante rispetto agli avversari – proprio grazie alla riconquista delle città sopra menzionate – in questo caso si può davvero parlare di un «reset» dell’intera classe politica locale. Che tocca ovviamente anche la Lega di Salvini, anche questo un partito alle prese con problemi di tenuta nel territorio, a cominciare dalle classiche provincie lombarde, dove il Carroccio fallisce tutti gli obiettivi.
Si potrà obiettare che l’incertezza che oggi viviamo è un effetto sistematico delle condizioni politiche che poco a che vedere con la credibilità dei partiti e dei leader nel territorio: il formato oramai tripolare del sistema partitico rende per esempio inevitabili certi rovesciamenti improvvisi di maggioranza, anche a discapito di sindaci capaci, e favorisce l’abbassamento drammatico della partecipazione elettorale ai ballottaggi. Tuttavia, troppe evidenze restituiscono, dopo queste elezioni comunali del 2016, un quadro straordinariamente disomogeneo: l’andamento schizoide dei risultati dei partiti consolidati (ivi incluso il M5S), la fluidità del voto legata a clamorosi errori durante la conduzione delle campagne elettorali da parte di molti candidati sindaci, l’imbarazzante successo di liste civiche o «del candidato sindaco» al cospetto dei simboli ufficiali dei partiti, e infine la frammentazione all’interno delle coalizioni (soprattutto nel centrodestra, con tre partiti come Lega Nord, Fratelli d’Italia e Forza Italia oramai vicini in molte città).
Sarà importante analizzare la ricchezza e la diversità delle formule politiche e degli stili che connoteranno da oggi il governo delle città. Tuttavia, senza il consolidamento di un qualche nesso tra l’azione dei partiti nel territorio e la formazione di un ceto politico locale minimamente stabile, c’è da scommettere che tale ricchezza si trasformerà presto in una nuova ondata di incertezza.
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