Si dice che la preghiera dell’amministratore elettorale americano sia «buon Dio, fa che il distacco sia netto» per evitare contestazioni: nelle recenti presidenziali americane esso è stato netto (sette milioni di voti) ma al contrario la vicenda si chiude con la coincidenza senza precedenti tra la certificazione del nuovo presidente e l’attacco al parlamento delle squadracce del suo avversario sconfitto.
Sul carattere vergognoso e golpista dell’assalto si è già detto. L’appello di Trump alla violenza si è specificatamente indirizzato contro il Congresso, la cui sacertà democratica tutti sottolineano. Ricordiamo tuttavia anche la tradizione opposta: la Casa Bianca (quindi Trump stesso) sarebbe la sede di una leadership sicura e unificata, il Congresso la sentina di intrallazzi antipopolari di partiti e politicanti. Trump «il folle» distorce autoritariamente le tradizioni politiche americane, ma alla loro luce resta riconoscibile dai suoi.
Fin dalle elezioni presidenziali, è emerso un dibattito sul futuro del trumpismo, sia come prassi politiche e programmatiche, sia come figura personale di Trump. Sulla permanenza del primo, articolazione americana del movimento neo-populista e neo-nazionalista diffuso nel mondo transatlantico e oltre, non ci sono tanti dubbi. Esso è il drammatico portato della svolta dei sistemi politici e ideali dagli anni Ottanta con nuove configurazioni su chi è rappresentato, chi è tutelato, chi è vincente o perdente nella parziale fusione tra i conservatori e i «progressisti» della «Terza via» (Blair, Clinton, Obama, giù giù fino a Renzi). Intanto i partiti di centro-sinistra rappresentano oggi sempre più fasce di ceto medio di buon reddito e buona scuola, lasciando ai nuovi populismi il «popolino» meno colto e meno benestante.
Sulla figura personale di Trump la questione è più complessa. Nell’immediato post-elezioni l’identità trumpismo-Trump era generalizzata: Donald sarebbe rimasto in primo piano tra i repubblicani, avrebbe condotto l’opposizione ai democratici, e si sarebbe preparato la ricandidatura nel 2024. Il «culto della sua personalità» tra i repubblicani era stato propiziato dalla formidabile vittoria elettorale del 2016 che aveva dato al Grand Old Party la Casa Bianca, entrambe le Camere, la maggior parte dei governi statali, mentre Trump riempiva il giudiziario, e in particolare la Corte Suprema, di giudici conservatori. Certo, i repubblicani avevano perso la Camera nel 2018, ma la sua fama di arbitro del successo elettorale aveva resistito, e il repubblicano che cercava l’elezione o la rielezione «doveva» essere trumpiano a rischio di sconfitta. D’altra parte Donald era un grande demagogo, capace, come sottolinea Raffaella Baritono, di far sentire a un «popolo» che si sente defraudato, di essere portatore dei valori originari americani, compreso il diritto alla resistenza al potere tirannico.
Tra la «gente dabbene» delle fasce medio-alte, molti disprezzavano la volgarità del suo stile, ma se erano stati beneficati dalla sua politica fiscale, dalla sua deregulation e dalla critica al welfare, erano disposti a passarci sopra.
I crudeli errori della «non-politica» della pandemia si sono assommati a una sempre più cocciuta pretesa di aver vinto le presidenziali, supposte truccate senza prove. Fintanto che Trump attaccava il voto postale, la coerenza col repubblicanesimo partitico non era difficile: alla luce delle tendenze demografiche elettoralmente sfavorevoli, da diversi anni il Gop pratica la voter suppression, soprattutto l’indurimento dei requisiti personali e amministrativi per l’esercizio del diritto di voto, spesso focalizzati su aree di minoranza filo-democratica. Nel momento in cui però Trump chiede il capovolgimento del risultato presidenziale, e nega la legittimità dell’intero processo di assegnazione del potere via elezioni, mattone centrale del senso di identità nazionale, una fetta del partito (non tutto, e spesso con molta ambiguità) non lo può più seguire.
Più Trump si irretiva nell’accusa di brogli, più assumeva un tono autoritario e golpista, e più i suoi entusiasti si estremizzavano irrazionalmente, ma quanto di conservatorismo ragionante era rimasto prendeva le distanze. Era il caso ad esempio dell’illustre rivista conservatrice eisenhoweriana «National Review», fondata nel 1955 dal famoso intellettuale William F. Buckley Jr, che, divisa su Trump alle presidenziali, si era subito opposta alla denuncia delle elezioni truccate. Si appannava il Trump vittorioso e necessario per vincere: la sconfitta alle presidenziali poteva essere lenita dai 70 milioni di voti presi e dalla buona prestazione repubblicana alle elezioni congressuali. Ma il vero «Ko» è stata la combinazione tra la perdita della Casa bianca e la sconfitta alle elezioni supplettive in Georgia. Trump ha legato queste ultime alla sua dittatoriale insistenza sul voler rivincere a tavolino la presidenza. Risultato: la Georgia elegge due senatori democratici, dopo che per vent’anni non ne aveva eletto nemmeno uno, e la maggioranza al Senato passa a questi ultimi. La vicinanza a Trump, da garanzia di successo elettorale a destra, diventa il bacio della morte.
Il suo enorme risultato elettorale nel 2016 ha trumpizzato il partito, il suo crollo lo ha oggi frantumato in spaccature irrisolte. È molto difficile interpretare l’assalto al Congresso come un mattone costruttivo della permanente centralità trumpiana nell’immediato futuro politico. Ha superato un confine un-american relativo ai fondamenti liberali della vita pubblica da cui è difficile tornare, a meno che i suoi nemici, i democratici anzitutto, non gli forniscano un martirio controproducente e spettacolare. Lo teme anche la leadership repubblicana non-più-trumpiana di Mike Pence, Mitch McConnell, Lindsey Graham, orizzontati forse verso la meno roboante lezione reaganiana. Anche perché i trumpiani sono ancora tanti: dopo il vulnus costituzionale dell’assalto, i congressisti repubblicani che hanno votato contro la certificazione di Biden sono stati 6 senatori, tra cui l’autorevolissimo Ted Cruz del Texas, e una larga fetta dei repubblicani della Camera.
La sera di venerdì 7 gennaio Trump ha rilasciato una dichiarazione in cui ha sostenuto che gli assaltatori non sono veri americani e che incorreranno nella severità della legge. Queste parole, contrarie a tutto ciò che ha detto fino a quel momento, gli hanno tolto anche l’ultimo aspetto titanico che avrebbe voluto incarnare, quello demoniaco. Successive dichiarazioni sembrano suggerire che cercherebbe di isolare l’ala militarizzata e violenta del trumpismo dal grosso corpo dei suoi elettori, perdenti del globalismo liberale, spesso disprezzati e svillaneggiati dal mondo urbano cosmopolita e mediologico, che brandisce la loro volgarità per non conoscerli affatto. Un compito, a questo punto, davvero improbo.
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