Non si può certo dire che non ce lo si aspettasse; il risultato delle elezioni europee in Germania appare infatti in linea non solo con i sondaggi più recenti, ma più in generale con il trend che ha caratterizzato il sistema politico tedesco negli ultimi anni: quello, cioè, di una – fino a qualche anno fa – inedita e progressiva polarizzazione e frammentazione dello spettro partitico.
Dei sei partiti capaci di superare la soglia del 5% – Cdu/Csu, AfD, Spd, Bsw e Fdp – due sono teoricamente non coalizzabili, e uno di questi, Alternative für Deutschland (AfD), è attualmente il secondo partito. Se al momento tale dato non sembra avere delle immediate conseguenze negli equilibri parlamentari europei, è certo però che ciò ha e avrà delle ripercussioni interne non da poco. È noto che per gran parte del periodo successivo al 1949, infatti, il sistema partitico tedesco è stato uno dei più stabili in Occidente. Un elettorato dalle preferenze più o meno costanti, la centralità dei due Volksparteien, la soglia di sbarramento e altri accorgimenti costituzionali hanno infatti assicurato il funzionamento di quel meccanismo a “due partiti e mezzo” per il quale Cdu/Csu e Spd si sono alternati al governo, per oltre cinquant’anni, in coalizioni quasi monocolore con l’apporto della Fdp come partito pivot.
Sebbene negli anni Settanta e Ottanta la crescente volatilità elettorale, l'aumento di comportamenti politici non convenzionali e la defezione di porzioni significative dell'elettorato verso i nuovi partiti emergenti abbiano rappresentato una seria sfida per i partiti politici “consolidati”, per ciò che riguarda il funzionamento del sistema tedesco questi sviluppi non hanno prodotto immediatamente un cambiamento fondamentale, né con l’approdo dei Verdi al Bundestag, la prima volta nel 1983, né con le elezioni post-riunificazione. Il sistema ha iniziato a dare segnali di cambiamento con il governo Schroeder (il primo a implicare un completo turn-over con la fuoriuscita della Fdp dalla coalizione di governo e l’ingresso dei Verdi), e poi di cedimento con le reiterate Grandi coalizioni dell’era Merkel che, ben lungi dall’essere state il frutto di deliberate scelte politiche, hanno invece esibito il segno di un’opzione quasi obbligata, dovuta all’impossibilità di perseguire la tradizionale logica di formazione delle coalizioni.
Di fronte a un panorama partitico sempre meno stabile, sempre più frammentato, sempre più polarizzato e sempre meno dominato dai due Volksparteien, l’unico sbocco possibile per evitare il riproporsi della logica centrista della Grande coalizione è stato il tentativo della Ampelkoalition, la coalizione semaforo che guida la Germania oggi, nonché la prima coalizione a tre partiti da sessant’anni a questa parte. Un esperimento, però, che non sta dando i frutti sperati. Scholz, ad oggi, presiede il governo più impopolare della storia recente della Germania, mentre il suo personale indice di gradimento ha stabilito un record negativo, con oltre il 70% dei tedeschi insoddisfatti. Il risultato delle elezioni europee non ha fatto altro che indebolire ulteriormente la posizione del cancelliere, al quale è stato a più riprese richiesto di fare un passo indietro.
Scholz, ad oggi, presiede il governo più impopolare della storia recente della Germania, mentre il suo personale indice di gradimento ha stabilito un record negativo, con oltre il 70% dei tedeschi insoddisfatti
Paradossalmente, però, proprio quella frammentazione politico-partitica che rappresenta una delle ragioni di difficoltà nella gestione della coalizione, al momento è anche l’assicurazione per la sua permanenza al governo. Con la sfiducia costruttiva, infatti, il Parlamento può estromettere un cancelliere solo votando un sostituto entro 48 ore. Una possibilità che appare improbabile se si considera che le difficoltà nel formare una maggioranza sperimentate dopo le elezioni federali permangono tali e quali oggi. La coalizione al governo, d’altra parte, non risolverebbe il problema di trovare un accordo sulle politiche chiave semplicemente cambiando il cancelliere, e l’ipotesi che la Cdu/Csu possa formare un nuovo governo appare lontana se si continuano a considerare i partiti estremi, e in particolare AfD, come non coalizzabili. Non è detto naturalmente che questo rimanga lo scenario: di fronte all’indebolimento della Fdp, quello del possibile coinvolgimento dell’estrema destra al governo è un tema spinosissimo con cui in ogni caso dovrà probabilmente fare i conti il forse futuro cancelliere Friedrich Merz.
Al momento, tuttavia, escludendo l’ipotesi del voto di sfiducia, solo il cancelliere potrebbe chiedere un voto di fiducia. C’è chi ipotizza che Scholz possa farlo in occasione dell’accordo sul bilancio, che si prospetta come un passaggio tutt’altro che semplice per la tenuta della Ampelkoalition.
Ci sono in ballo circa 40 miliardi di tagli necessari per colmare il buco di bilancio frutto delle ramificazioni della sentenza della Corte costituzionale del novembre scorso, che ha limitato la capacità del governo di attingere a fondi speciali istituiti per aggirare il freno costituzionale al debito. Ed è proprio la cosiddetta Schuldenbremse (letteralmente, appunto, “freno all'indebitamento”), e l’ipotesi di una sua riforma, a essere da tempo oggetto di accese dispute all’interno della coalizione. Il tema è complesso, perché la decisione di inserire un limite all’indebitamento nella Costituzione è strettamente legata all’espressione della peculiare cultura economica tedesca ed è altresì legata al modo in cui la classe politica ha a lungo concepito il ruolo della Germania in Europa. Istituito nel 2009 nel contesto della “Grande recessione” post-2008, il freno all’indebitamento ha infatti rappresentato la risposta “ordoliberale” a un duplice problema: quello del superamento della soglia del 60% nel rapporto debito/Pil, dovuto sia ai costi della riunificazione tedesca sia all’impatto della crisi del 2008, e quello dell’apparente inverarsi di uno dei peggiori incubi dell’establishment politico ed economico, ovvero la trasformazione dell’Europa in una “comunità dell’inflazione” nella quale la Germania avrebbe finito per pagare per gli errori altrui.
Se da un lato la Schuldenbremse ha dunque rappresentato un contraltare alle misure di stimolo che si erano rese necessarie per puntellare il propagarsi degli effetti della crisi nata in terra americana, dall’altro lato essa è diventata uno dei pilastri del tentativo di esportare il “modello tedesco” in Europa – modello che in tale fase si è però piuttosto cristallizzato attorno alla sua concezione ordoliberale legata al mantenimento della stabilità finanziaria, piuttosto che nella dimensione olistica dell’economia sociale di mercato. Rinunciare alla Schuldenbremse non è dunque solo un tema tecnico; in ballo c’è piuttosto l’adesione di lungo periodo a una cultura della stabilità che dalla ricostruzione in avanti non ha vacillato nemmeno durante l’esperimento keynesiano della Globalsteurung, ovvero della politica di stimolo della domanda portata avanti dal ministro Schiller tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Ma rinunciare alla Schuldenbremse significa anche accantonare l’idea di una “Germania modello” e di una proiezione esterna legate proprio a questa cultura.
Il freno all’indebitamento è stato oggetto di critiche profonde nel corso degli anni; se è vero che ha contributo effettivamente a tenere il rapporto debito/Pil sotto controllo, è anche vero che ha limitato fortemente la possibilità di investimenti
Nondimeno, il freno all’indebitamento è stato oggetto di critiche profonde nel corso degli anni; se è vero che ha contributo effettivamente a tenere, in Germania, il rapporto debito/Pil sotto controllo, è anche vero che ha limitato fortemente la possibilità di investimenti – fatto che oggi si traduce nell’obsolescenza delle infrastrutture e in un’industria poco orientata all’innovazione scientifica e tecnologica, con ripercussioni che iniziano a mettere in serio pericolo l’intera struttura del modello economico tedesco basato sulle esportazioni.
Per queste e altre ragioni, già nella campagna elettorale, i Verdi avevano proposto quantomeno una riforma della Schuldenbremse che permettesse di superare i vincoli di spesa relativi a infrastrutture, sanità ed educazione/istruzione, trovando però la ferma opposizione del partito liberale, deciso invece a mantenere immutati i vincoli sull’indebitamento. Ad oggi le posizioni non sono cambiate: sia i Verdi sia una parte consistente della Spd spingono per una riforma che permetta da un lato di evitare tagli alla spesa sociale, che come ha fatto notare Moritz Schularick, presidente del Kiel Institute for the world economy, costituisce quasi la metà del budget federale, e dall’altro lato di investire in due ambiti considerati fondamentali, ovvero transizione energetica e difesa.
Sull’ultimo punto spinge in particolare il ministro della Difesa Boris Pistorius, proponendo che gli ulteriori 6,5 miliardi richiesti per raggiungere gli obiettivi stabiliti con la Zeitenwende (letteralmente “svolta epocale”) vengano pagati attraverso un fondo speciale al di fuori del bilancio, appellandosi al diritto costituzionale alla sicurezza e alla difesa di cui devono godere i cittadini tedeschi. Ma se Annalena Baerbock si allinea alle posizioni del ministro alleato ammonendo contro il pericolo di “salvare il freno all’indebitamento” perdendo però l’Ucraina, il leader dei liberali Christian Lindner rigetta ogni ipotesi che preveda di aggirare la Schuldenbremse.
Il risultato europeo non aiuta: l’indebolimento dei partiti della coalizione non fa altro che spingerli su posizioni sempre più rigide nel tentativo di riconquistare la base elettorale. La legge di bilancio andrà chiusa entro il 3 luglio e potrebbe essere tanto l’ultima occasione di consolidare la coalizione e di invertire la tendenza, quanto il momento di salutare definitivamente qualunque ipotesi di convergenza politica.
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