Fino a poche settimane fa il partito repubblicano sembrava in frantumi di fronte alla vittoria di Donald Trump. Adesso i media sottolineano la rapidità con cui si è ricompattato e il cerino della divisione è passato nel campo democratico a causa della persistente gara tra Hillary Clinton e Bernie Sanders. Le condizioni in cui questa avviene sono nuove: il vantaggio della Clinton su Trump nelle rilevazioni d’opinione è andato assottigliandosi fino a sparire. Il che ha cancellato la rosea aspettativa dei democratici secondo cui Trump, «l’impresentabile», sarebbe stato tranciato alle elezioni nazionali, checché ne fosse dell’elettorato di Sanders. La situazione è cambiata: Hillary ha superato Sanders alle primarie con un buon margine, ma non travolgente, di oltre tre milioni di voti, e una performance a singhiozzo che non obbliga il competitore a desistere. Le sue posizioni di merito, che pure sottolineano i diritti delle donne e delle minoranze che le sono in larga misura favorevoli, hanno poco risalto pubblico, di fronte agli estremismi di Trump e al «classismo socialista» di Sanders.
Quest’ultimo deve però scontare l’ostilità dei potentati democratici, dai cui ranghi si levano fitte richieste a che Sanders si ritiri e porti il proprio appoggio e i propri voti a Clinton, pena la divisione del partito che potrebbe regalare a Trump la presidenza. Di fatto questi gruppi hanno finora giocato a ostacolare con mezzi burocratico-regolamentari la campagna di Sanders. L’animosità tra i due campi si è accentuata fino a sfociare nella quasi-rissa alla riunione del partito nel Nevada. Il più recente episodio in ordine di tempo si è verificato proprio in queste ore, alla vigilia delle ultime primarie importanti (California, 7 giugno). Mentre Sanders aveva ribadito l’intenzione di continuare per la sua strada elettorale, l’Associated Press ha rivelato che tra i superdelegati del partito – membri del Congresso e governatori, che siedono di diritto alla convention – la maggioranza sarebbe già pro-Hillary, la quale avrebbe così di fatto già raggiunto e superato la soglia di 2.383 delegati necessaria a ottenere la nomination. Un sondaggio che ha mandato su tutte le furie Sanders, che insiste invece per attendere la conta ufficiale, in estate.
Se si guarda alla vicenda con la lente degli sconvolgimenti che lacerano i tradizionali sistemi partitici europei, si può ipotizzare un’altra narrazione. La campagna elettorale rappresenta non solo la delegittimazione dell’establishment repubblicano ma anche di quello democratico da parte di Sanders. Negli Stati Uniti, diversamente da molti Paesi europei, la democrazia liberale e le sue principali istituzioni sono centrali al senso di sé come nazione. I terremoti non stanno quindi avvenendo contro i tradizionali partiti in quanto tali, ma contro le loro dirigenze. Trump e Sanders sono ovviamente diversi (anche se hanno pezzi di elettorato contigui nella classe lavoratrice maschile e nelle filippiche contro i potenti affamatori del popolo), ma hanno in comune la vocazione anti-establishment. In questa situazione di insurgency un po’ all’europea, Hillary, portavoce della direzione democratica e vicina a Wall Street, è una candidata con grosse debolezze, e un compromesso con la rivolta in corso richiede ai democratici soluzioni importanti e costose che oggi non si vedono ancora. I repubblicani, con la loro strategia di accettare e provare a quietare Trump appaiono attualmente più flessibili.
Nessuno può dire cosa accadrà ma per quale ragione Sanders dovrebbe compromettere la sua leadership, deludere molti seguaci, rinnegare le sue posizioni, diventando «l’ala sinistra» di Hillary nel nome del patriottismo di un partito che l’ha trattato solo come un incomodo? Le contropartite a cui si accenna sembrano molto minimaliste rispetto alla dislocazione politica in corso: un contributo significativo alla piattaforma di partito, che tuttavia non conta quasi nulla rispetto alle politiche della futura amministrazione; un discorso di rilievo alla convenzione. Il partito sembra trattare Sanders come un qualunque perdente alle primarie, come tanti in passato, e lealtà vuole quindi che si ritiri, dandosi da fare per la vittoria della candidata vincente.
Ma questa si presenta come una elezione che è tutto fuorché normale e quel modo di vedere non coglie l’ampiezza della trasformazione della domanda elettorale in corso. Il nocciolo del conflitto in corso tra Sanders e il partito si concentra su chi deve fare il primo passo: Sanders che si ritira e porta voti, sostegno e credibilità a Hillary, o lei e il partito che formulano una offerta (magari la vicepresidenza e/o la candidata che abbraccia alcune posizioni care a Sanders) all’altezza del terremoto politico-elettorale in corso?
Gli eventi si accavallano e ogni opinione sarà rapidamente smentita: certo a parere di chi scrive il Partito democratico deve dare un segno importante di aver compreso la netta trasformazione delle preferenze elettorali in corso.
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