Sir Keir Starmer, MP per Holborn e St Pancras e shadow minister per la Brexit, è il diciannovesimo leader del partito laburista britannico. Proclamato ufficialmente sabato 4 aprile dopo una lunga e stramba campagna elettorale, Starmer ha confermato tutti i pronostici al termine di una campagna elettorale di fatto congelata dall’esplodere del Coronavirus. Iniziata subito dopo la grave sconfitta di dicembre, la campagna elettorale è come se si fosse conclusa in un’altra «epoca». Starmer diventa così il leader dell’opposizione in quella che appare una nuova fase della politica inglese in cui perfino il «Financial Times» chiede un nuovo contratto sociale.

Guadagnandosi il 56,2% delle preferenze, il nuovo leader laburista ha ottenuto da un lato una vittoria scontata su Lisa Nandy (16,2%), dall’altro ha però allungato in modo significativo – un dato questo relativamente inaspettato – le distanze da Rebecca Long-Baily (27,6%), considerata l’erede di Jeremy Corbyn e John McDonnell. A pochi minuti dalla proclamazione, Starmer ha rilasciato via Twitter un videomessaggio, sul quale aveva probabilmente lavorato prima ancora di conoscere i risultati ufficiali. Non potrebbe esserci differenza più marcata fra lo stile del neoeletto e l’ormai ex-leader Jeremy Corbyn. Mentre l’immagine pubblica che Corbyn e, indirettamente, Rebecca Long-Baily hanno offerto era quella delle strette di mani e dei selfies, delle folle più o meno numerose di attivisti estasiati e di giovani hipsters intonanti cori da stadio, la sobrietà scelta da Starmer, imposta dalle drammatiche circostanze che stiamo vivendo – una sorta di zoom candidate obbligato a incontrare i sostenitori in conference-call –, sembra tuttavia rinforzare la strategia misurata con la quale ha condotto la campagna elettorale.

Starmer non ha perso tempo: non ha deluso affrontando sin dai primi minuti l’infausta questione dell’antisemitismo (Corbyn si è sempre rifiutato di offrire scuse pubbliche) e insistendo sull’urgenza di riunire e riappacificare il Labour. Consapevole della portata della sfida che lo attende e delle tensioni che sembrano già paventarsi (i commenti a caldo dei corbynites non sono stati incoraggianti), il nuovo leader dell’opposizione ha accettato l’invito a Downing Street che, ancora prima dell’annuncio della vittoria, il primo ministro Johnson gli aveva proposto. Non ancora un governo di unità nazionale come qualcuno scrive da giorni – possibilità peraltro che Starmer non ha escluso nell’intervista rilasciata ad Andrew Marr sulla BBC domenica mattina – ma di certo un’enorme distanza rispetto alla prassi unilaterale di Corbyn.

Quanto tutto questo sia una inversione al «centro», tradendo le aspettative radicali e le attese socialiste della «rivoluzione corbynista», secondo una narrazione, o più semplicemente si tratti del ritorno al ruolo di opposizione democratica nel quadro del modello Westminster basato sul principio della scrutiny, secondo una diversa lettura, avremo tempo per capirlo. Ciò che unisce entrambe le interpretazioni tuttavia mi pare sia il fatto che Keir Starmer «non è Jeremy Corbyn», come scrive un po’ sollevata quasi tutta la stampa britannica. E per comprenderne le conseguenze vale la pena riflettere su che cosa abbia realmente rappresentato il corbynismo.

Sarebbe estremamente miope infatti analizzare queste elezioni come la semplice reiterazione dello scontro «blairiani» versus «corbynisti», oppure old Labour versus centrists. Ancora più ingenuo ritenere poi che con Starmer sia tornata l’egemonia del New Labour o che addirittura egli sia l’erede di Blair. Quando questi vinse nel 1997, il contesto era diverso, la geografia elettorale era radicalmente differente, la parola Brexit non era nemmeno stata coniata. Se proprio si vuole fare il gioco delle figurine dei leader laburisti, Starmer forse andrebbe messo al fianco di Neil Kinnock, che come lui ereditò un partito uscito da una débâcle elettorale, o ad Harold Wilson, che ebbe il compito di tenere insieme un partito dilaniato da scontri interni provenienti da un fronte diverso però, la destra laburista.

Basta cercare nella biografia di sir Kir, di cui un esaustivo benché a tratti celebrativo affresco ci fornisce Patrick Maguire sul «New Statesman», per capire che Starmer non è un novello Blair. Sarebbe un po’ come ritenere Renzi l’erede di Moro. Spiega più le aspettative di chi lo scrive e non il contesto della leadership laburista. Starmer ha dedicato la sua carriera di avvocato a difendere i diritti delle minoranze, degli esclusi e dei lavoratori; specializzato in diritti umani, ha lavorato a fianco dei sindacati e si è battuto per i tipografi di Wapping contro Murdoch durante la fase più acuta del thatcherismo. Non solo utopista però: si rumoreggia che abbia prestato il patrocinio gratuito come avvocato a Holborn e St Pancras quando si aprì la possibilità di trovare un nuovo candidato, così da poter facilmente vincere la selezione per un seggio sicuro. Ha inoltre combattuto una lunga battaglia ambientalista come rappresentante legale in una causa contro la catena McDonald durata 15 anni e conclusasi alla Corte europea. Ecco, forse questa è la ragione dell’equivoco. Starmer è europeista e, benché vicino agli Young Socialists durante gli anni universitari, non fu, al contrario di Corbyn, mai attratto dall’antieuropeismo ideologico di Tony Benn.

Sarebbe tuttavia altrettanto semplicistico credere che senza Corbyn non ci sarà più il corbynismo. Basta guardare il lungo thread con cui Momentum – il gruppo creato dal basso da Jon Lansman e attorno al quale si è cementata la leadership personalistica di Corbyn – ha accolto la vittoria di Starmer per capire la fragilità della situazione. Il corbynismo non è stato soltanto la frattura anti-austerity che ha spostato la barra verso politiche progressiste e inclusive mutando radicalmente il discorso laburista e che, comprensibilmente, è stato accolto con favore da altre sinistre europee. Allo stesso tempo, il corbynismo è stato anche una sorta di postmoderno culto del capo, una setta, secondo Politics.co.uk, in grado di far riemergere nel vacuum lasciato dal New Labour una cultura politica ora riorganizzatasi attorno a una piattaforma di movimentismo, discorso antiglobalista, romanticizzazione dell’antagonismo e nostalgia degli anni Ottanta, da cui recuperare una idealizzata idea di comunità e di lotta.

Sebbene non abbia vinto la battaglia per il vertice, questa cultura, che unisce ai pacifisti che manifestavano contro la guerra in Iraq una giovanissima generazione di attivisti entrati in contatto con la politica attraverso i social media, ha «occupato» alcuni gangli importanti del partito, nel Nec e nel sindacato. Una lezione che Lansman ha messo in pratica dopo averla imparata a proprie spese agli inizi della sua carriera come chief fixer per Tony Benn. Per andare a testare gli umori di questo pulviscolo di rebels, come si autodefiniscono, si deve cercare nella selva mediatica della cosiddetta Alt-Left: da Novara Media, forse l’esperimento di maggior successo, a Labourlist e alla galassia di blog, website a webjournal dei corbynites. Per questi la vittoria di Starmer è una «sconfitta della sinistra», come scrive «Tribune», la rivista fondata da Stafford Cripps e dal 2009 ripubblicata con una linea decisamente meno socialdemocratica.

Oltre alla comparsa del Blue Labour – la corrente tradizionalista e sovranista pro-Brexit emersa di recente – è forse questa l’eredità più tossica che il corbynismo lascia alla sinistra inglese e con la quale Starmer deve confrontarsi: l’intransigenza dei principi assoluti, esclusivi; il considerare la dialettica politica unicamente come lotta; il rifiuto del dialogo e del compromesso, intesi soltanto come tradimento; il pensare la democrazia come un terreno da conquistare.

Il corbynismo è principalmente un movimento urbano, percepito come l’ennesimo prodotto londinese, con i centri nevralgici nelle università da un lato e nei gruppi di ex laburisti dissidenti dall’altro. È questa una delle ragioni endemiche per cui alle ultime elezioni il Labour ha perso buona parte red wall e roccaforti storiche come Sedgefield o Bolsover, il collegio elettorale di Dennis Skinner che ha votato conservatore per la prima volta nella sua storia.

Ma sarebbe altrettanto sbagliato liquidarlo come la riemersione della vecchia sinistra ortodossa. Il manifesto sul quale ottenendo un inaspettato successo Corbyn «quasi» vinse le elezioni nel 2015 a leggerlo oggi lo si scopre come una tradizionale risposta socialdemocratica alla trasformazione strutturale in atto e alla desertificazione che le politiche di austerity hanno creato. Diversa la vicenda di dicembre 2019, ma altrettanto emblematica: la valanga di promesse elettorali scoordinate e non sostenute da una chiara politica economica, che andavano dal luxury communism – la broadband gratuita per tutti – alle pensioni e all’Nhs, riassumono il deficit primario del corbynismo: l’incapacità di prendere una decisione, di scegliere, di individuare una priorità di politiche; insomma una mancanza di leadership. La posizione sulla Brexit ne è l’esempio più cristallino.

Spesso presentato come «compassionate socialism» o «aspirational socialism», il progetto politico portato avanti da Corbyn e dai suoi sembra sempre aver avuto bisogno di aggettivi per spiegarsi. La sfida di Starmer ora è quella di accogliere e dare rappresentanza agli aspetti del corbynismo che si richiamano alla tradizione democratica laburista, inserendoli in una visione per il futuro e non soltanto nella celebrazione del passato, come è indubbio che la propaganda corbynista ha, forse involontariamente, sempre fatto. In altri tempi, si sarebbe scritto che l’obiettivo di Starmer ora è quello di creare una nuova egemonia, prima nel partito e poi nel Paese.

Alcuni segnali in questa direzione ci sono già. Oltre all’elezione del leader, si sono svolte anche le elezioni per due membri del Nec e i candidati «corbynsceptics» – una sottile ma importante differenza – hanno spazzato via i loro oppositori corbynisti. Il nuovo shadow cabinet annunciato domenica 5 aprile, pur mantenendo un equilibrio fra le correnti, segna purtuttavia una netta discontinuità: se ovvia appare la nomina dell’ex Mep Annieliese Dodds allo Scacchiere, più combattiva è invece la nomina di Angela Rayner a party chair.

C’è infine una nuova generazione di sindaci laburisti, da Bristol a Birmingham, che si sta rendendo protagonista nella gestione della crisi del Coronavirus con scelte nette e solidali. Persino i tabloid hanno già iniziato ad attaccare Starmer, confermandoci insomma che forse un po’ di sinistra lo è e, soprattutto, smentendo la stucchevole teoria complottistica che la stampa inglese «schiava del capitale» odiava Corbyn perché socialista. A questo punto possiamo almeno dargli il beneficio del dubbio, visto che lo dice anche il «Sun». In ogni caso, se Starmer riuscirà a riconquistare il Nord e il famoso red wall, riportando al governo il Labour dopo 4 consecutive sconfitte, non lo sapremo prima del 2024.