Da aprile 2016, la presenza di migranti in transito in Serbia è passata da 1600 a quasi 5000 persone: numeri in costante aumento che mettono alla prova le capacità di ricezione del Paese e che pongono seri interrogativi in vista dell’inverno imminente.

Nello stesso periodo, in seguito alla chiusura del confine da parte della Croazia, la rotta dei migranti si è spostata verso il nord del Paese: sul confine ungherese le presenze giornaliere ondeggiano dalle 160 registrate a inizio aprile alle oltre 680 nell’ultima settimana, con picchi di 1.450 presenze in agosto.

È vero che gli arrivi in Serbia si sono drasticamente ridotti rispetto all’anno scorso, ma una stretta ancora più risoluta ha interessato le vie d’uscita dal Paese: da quando la Croazia ha chiuso i propri confini, l’Ungheria è l’unica via per proseguire legalmente il viaggio verso i Paesi europei, ma Budapest autorizza solo 30 ingressi al giorno: 15 dal passaggio di confine di Kelebija e 15 da Horgoš. In corrispondenza di questi due attraversamenti di confine si sono create «zone di transito», di fatto accampamenti improvvisati e fatiscenti dove famiglie e singoli aspettano, accampati nelle tende, il proprio turno per passare il confine.

A fronte di un flusso in uscita di 30 persone al giorno – cui si sommano quelli che passano il confine ricorrendo a trafficanti, sul cui numero non ci sono certezze – gli ingressi stimati da Unhcr ammontano ad almeno 200 al giorno. Si tratta però solo di una stima, invariata nelle ultime settimane, perché da aprile il governo serbo ha sospeso il rilascio del certificato di transito, un documento che consentiva ai migranti di attraversare legalmente il Paese nel giro di 72 ore e che rappresentava una base documentale per quantificare il numero di persone in entrata. Che ora può essere solo approssimato.

Nella zona di transito di Kelebija i numeri variano di giorno in giorno: la scorsa settimana si è passati da 80 a 160 presenze nel giro di una sola notte. Per alcuni si tratta di una permanenza di pochi giorni mentre altri, famiglie comprese, si trovano qui da più di due mesi.

Un’attesa logorante perché non c’è margine di previsione rispetto al momento in cui a ciascuno sarà consentito di attraversare. La lista è gestita dal Commissariato per i rifugiati (organismo pubblico costituito inizialmente per gestire gli sfollati interni dopo i conflitti degli anni Novanta il cui mandato, dal 2012, è stato esteso alla gestione delle migrazioni tout court) e le informazioni trapelano solo in modo ufficioso. I migranti in attesa vengono informati quando i loro nomi si approssimano al vertice della lista, dopodiché il documento può subire modifiche che possono protrarre l’attesa anche per settimane.

Dei 30 a cui spetta l’attraversamento ogni giorno, alcuni potrebbero infatti non trovarsi più nella zona di transito, avendo deciso di ricorrere ai trafficanti per passare in Ungheria. Data l’impossibilità di stabilire con certezza chi sarà il prossimo, è fondamentale rimanere a ridosso del confine per non rischiare di perdere il proprio turno. L’unico modo per farlo è accamparsi nell’area di transito che, così come i campi governativi, è sotto il controllo del Commissariato.

Lì le tende e le persone si ammassano, ma i servizi offerti dalle autorità scarseggiano. «Nei campi gestiti dal Commissariato gli standard di accoglienza sono deficitari: la maggior parte sono sovraffollati e arrivano ad ospitare il doppio delle persone inizialmente previste. Dal punto di vista della sicurezza poi, in molti di questi campi chiunque può entrare ed uscire senza che vi siano i controlli indispensabili a garantire la sicurezza di chi si trova all’interno di queste strutture» – nota una delle operatrici che incontriamo al confine. «La situazione nella zona di transito a ridosso del confine è però persino peggiore: c’è una sola doccia a disposizione per tutte le persone accampate nell’area. Con l’inverno alle porte, è impensabile che queste persone continuino a dormire nelle tende senza mettere in pericolo la propria salute».

Una volta varcato il confine, le 30 persone che ogni giorno lasciano la zona di transito per entrare in Ungheria vengono nuovamente trattenute per essere sottoposte ai controlli della autorità locali che possono risultare in respingimenti arbitrari, parte integrante di quella «guerra ai rifugiati» che culminerà con il referendum che si terrà nel Paese il prossimo 2 ottobre. Nel caso di uomini soli è previsto un periodo di quarantena di 28 giorni, da trascorrere in uno spazio delimitato, nel corso dei quali vengono effettuati i controlli di sicurezza. Chi dopo quest’attesa di quattro settimane viene respinto in Serbia, nella maggior parte dei casi tenterà di attraversare il confine ricorrendo ai trafficanti: un mese buttato al vento deve essere recuperato a costo di correre qualsiasi rischio.

A Kelebija, in prossimità della zona di transito, incontriamo Tarek, fondatore dell’associazione I am Human Organization (iHo) che qui gestisce un centro comunitario, spazio a disposizione dei migranti. Tarek è un cittadino siriano arrivato in Serbia due anni fa, prima di molti connazionali. L’anno scorso, quando è scoppiata l’emergenza umanitaria sulla rotta balcanica, Tarek ha fondato l’associazione I am Human e per mesi a Dimitrovgrad ha fornito supporto materiale ai migranti in arrivo dalla Bulgaria grazie a donazioni individuali e al lavoro di molti volontari dalla Serbia e da altri Paesi europei. Ora che gli arrivi da quel versante sono ridotti a un gocciolio constante ma limitato, Tarek si è spostato a Kelebija, dove da due mesi a questa parte gestisce questo spazio in collaborazione con altri volontari.

«La scorsa settimana da qui sono passate 550 persone, meno rispetto al picco raggiunto due mesi fa, quando in una sola settimana abbiamo registrato 925 persone», dice Tarek, consultando un computer portatile in cui i volontari di turno nella struttura registrano chiunque transiti da lì.

Lo spazio gestito da iHo, un centinaio di metri quadrati in tutto presi in affitto dall’associazione, ospita una roulotte in cui le persone in transito possono ricaricare i propri telefoni e accedere alla connessione internet. A fianco di una fila di docce da campo, una struttura in legno fa da centro educativo pensato in particolare per offrire ai minori uno spazio in cui poter svolgere attività ricreative ed educative, ma anche per offrire agli adulti corsi di lingua inglese e tedesca.

«Abbiamo allestito questo spazio soprattutto per offrire ai bambini uno spazio in cui usufruire di interventi educativi e di momenti di gioco – spiega Tarek, - ma molti di loro hanno enormi difficoltà a prendere parte a queste attività: a loro servirebbe un intervento di supporto psicosociale. Si tratta in buona parte di minori traumatizzati, che hanno lasciato il proprio luogo di origine fin da piccoli, e che non sono quindi mai stati scolarizzati. Quando finalmente riusciranno ad arrivare in Germania, si troveranno catapultati in un sistema scolastico al quale non saranno preparati».

Per questo sarebbero indispensabili interventi mirati e qualificati, che possano fungere da centro di prima integrazione.

Le cifre sulla presenza di minori all’interno del flusso di migranti che attraversa la Serbia non vengono fornite negli aggiornamenti settimanali rilasciati dall'Unhcr. Per approssimare la portata del fenomeno, è possibile però fare riferimento ai dati raccolti dal Belgrade centre for Human Rights, secondo le cui stime nel periodo da aprile a giugno 2016, su un totale di 2.665 persone che hanno espresso l’intenzione di iniziare le procedure di richiesta per ottenere l’asilo in Serbia, 1.003 casi riguardano minori.

Il centro comunitario ha un altro ruolo importante: lo spazio affittato dall’associazione funge da punto di incontro tra i migranti, i volontari di iHo e le organizzazioni internazionali attive sul campo, che non hanno accesso all’area di transito. Lo spazio limitato del centro è quindi l’unico nel quale sia possibile entrare in contatto diretto con i migranti, implementare la distribuzione di beni, valutare i bisogni dei singoli e dei gruppi.

Alcuni dei volontari presenti lamentano la gestione verticistica da parte del Commissariato, che lascia pochi spiragli di cooperazione con chi opera sul campo. La burocratizzazione delle pratiche di assistenza si è dimostrata, negli ultimi mesi, particolarmente inefficiente e incapace di gestire una situazione in costante mutamento.

Il mandato di quest’organismo è in buona parte legittimato dall’esperienza maturata nella gestione dei rifugiati interni provocati dai conflitti degli anni Novanta. La situazione odierna, legata all’arrivo e al transito nel Paese di migliaia di migranti e potenziali richiedenti asilo, pone ovviamente delle sfide di natura diversa rispetto a quelle sperimentare negli ultimi vent’anni, a partire dall’esistenza di barriere linguistiche e culturali.

Va notato che finora, a prevalere nel dibattito pubblico interno al Paese è stata la retorica secondo la quale la Serbia non sarebbe che un Paese di transito. Un argomento che certamente ha tenuto sotto controllo possibili reazioni avverse da parte dell’opinione pubblica, e che allo stesso tempo ha permesso di rimandare a oltranza una seria riflessione sulle possibilità di integrazione per i pochi che decidono di fare richiesta d’asilo nel Paese.

La situazione a Kelebija è drammatica, ma purtroppo non è che la punta dell’iceberg di una gestione della crisi improntata all’emergenza assoluta. Se Belgrado finora si è mostrata estremamente collaborativa rispetto alla gestione dei flussi migratori – una scelta sulla quale hanno certamente influito le pressioni di Bruxelles – non è detto che questo atteggiamento sia destinato a durare. La piena collaborazione alla politica delle porte aperte invocata da Berlino, ora che la cancelliera Merkel sembra sempre più isolata sia nel proprio Paese che all’interno dell’Unione europea, potrebbe essere messa in discussione anche da Belgrado.

 

[Questo articolo è stato pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso - Transeuropa, il 22 settembre 2016]