Ci sono molti modi per considerare i cambiamenti culturali e i loro riflessi sulla formazione delle giovani generazioni, pochi fenomeni si prestano tuttavia ad essere considerati anche quantitativamente. La composizione del corpo accademico è uno di questi: nel lungo periodo e considerando insiemi sufficientemente ampi, le modificazioni nella distribuzione dei professori universitari nei vari settori disciplinari rappresentano una buona indicazione di ciò che viene richiesto all’università, qual è la funzione degli studi superiori in una società, quali insegnamenti e quali percorsi sono considerati utili o formativi, e quali no.

Come è noto l’università italiana è stata sottoposta a una cura da cavallo, che ne ha pesantemente ridotto organici e capacità formativa. La diminuzione del corpo docente tra il 2007 e il 2017 è stata del 13 % circa, ma con effetti profondamente diversi tra i vari settori: mentre ad esempio gli organici dei dipartimenti di Ingegneria industriale e dell’informazione (Area 9 Cun) sono cresciuti del 3% e quelli di Economia (Area 12) dello 0,3%, altri settori scientifici non sono stati messi nelle condizioni di sostituire il (numeroso) personale posto in quiescenza. L’ambito umanistico (Aree 10 e 11) si è ridotto del 20%, perdendo oltre 2 mila degli 11 mila docenti in servizio nel 2007. Al suo interno, tuttavia, le differenze sono state notevoli e indicano alcune linee di tendenza culturali e scientifiche.

La tabella che segue prende per l’appunto in considerazione gli ambiti in cui accademicamente sono suddivise le cosiddette “discipline umanistiche”: le lingue e le letterature, la storia e la filosofia, la geografia, la pedagogia ecc. Mostra percentualmente qual è stata la diminuzione del corpo docente (professori e ricercatori, comprese le nuove figure “a tempo determinato”) nel decennio della grande crisi dell’università.

 

Diminuzione percentuale del corpo docente nei settori umanistici (Miur, 2007-2017)

 

Francesistica

-35,8

Scienze dell’antichità

-35,6

Discipline storiche

-32,6

Italianistica e letterature comparate

-28,9

Geografia

-25,5

Filosofia

-25,1

Anglistica e angloamericanistica

-21,8

Archeologia

-19,4

Lingue, letterature e culture germaniche e slave

-18,2

Filologie e letterature medio-latina e romanze

-17,6

Glottologia e linguistica

-16,0

Storia dell’arte

-15,9

Ispanistica

-11,5

Teatro, musica, cinema, televisione e media audiovisivi

- 5,6

 

 

Culture dell’Oriente

+ 0,3

Pedagogia

+ 0,6

Psicologia

+ 4,8

 

Fonte: www.cercauniversita.cineca.it.

 

Il ridimensionamento dell’università pubblica ha colpito e sta colpendo selettivamente alcune aree della ricerca e dell’insegnamento che in passato hanno goduto di una reputazione formativa di primissimo piano. È altamente simbolico, ad esempio, il fatto che i settori scientifico-disciplinari che hanno visto ridurre maggiormente i propri organici siano stati la Letteratura francese (-48%) e la Lingua e letteratura latina (-41%). Due fra i capisaldi della cultura europea occidentale otto-novecentesca stanno cioè crollando nella loro posizione accademica.

Tutti gli insegnamenti a carattere formativo generale patiscono però questo passaggio per più versi epocale: cosa dire della Storia, che perde in dieci anni 1/3 della sua presenza universitaria? E cosa sta a significare che un quarto e oltre dei docenti di Geografia, Filosofia e Storia delle letterature non sono stati sostituiti? Dietro a ciò è senza dubbio possibile leggere la mala fama lavorativa che circonda i percorsi di studio umanistici, accusati di sfornare coorti di disoccupati, a fronte invece delle mirabolanti prospettive dei laureati in materia scientifiche, o economico-sociali: un luogo comune che andrebbe invece analizzato in dettaglio e non abbandonato alle semplificazioni giornalistiche. Secondo i dati AlmaLaurea, a cinque anni dalla laurea l’occupazione dei laureati in scienze umani e sociali è dell’85% contro il 91% delle lauree scientifiche.

Ma non è solo questo. Si sta affermando una concezione del sapere umanistico “applicata” o “applicativa”: ridimensionata la valenza formativa generale, si cercano le materie che oltre a insegnare consentano una specializzazione, anche professionale. Così ad esempio, essendo stati sdoppiati una ventina d’anni fa i settori delle lingue principali tra “Letteratura” e “Lingua e traduzione”, quest’ultimi mostrano numeri costantemente in crescita, a fronte di una diminuzione drastica degli insegnamenti di Letteratura. Mentre, cioè, una volta una lingua era essenzialmente lo strumento per conoscere la storia, l’arte e la cultura di un popolo, e all’interno di tale concezione la Letteratura era considerata lo strumento più utile, adesso una lingua straniera è sempre più vista come un veicolo di comunicazione, e gli aspetti culturali sono diventati secondari.

Questa tendenza può certamente essere letta anche in positivo, come una maggiore ricerca di concretezza e di investimento positivo del sapere acquisito nelle aule universitarie. La diminuzione meno contenuta della media della Storia dell’arte sta, ad esempio, ad indicare che nello studio e nella tutela del patrimonio culturale va individuata una delle chiavi per salvaguardare e promuovere gli studi umanistici nel nostro Paese. Altri settori, quelli che studiano i nuovi media e la comunicazione visiva, resistono invece grazie al cambiamento che sta investendo il mondo della comunicazione e della rappresentazione iconica. Legato in qualche modo al “saper fare”, o meglio all’ “insegnare come fare”, è anche l’incremento degli organici dei pedagogisti e degli psicologi, tra i quali si annidano tuttavia veri e propri infiltrati scientifici: gli Psicobiologi e psicologi della fisiologia aumentano addirittura di 1/3 il proprio numero. Si tratta di numeri, quelli degli psicologi e dei pedagogisti, destinati peraltro ad aumentare, considerando che i nuovi percorsi di formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria prevedono insegnamenti di questo tipo anche all’interno del percorso universitario.

In conclusione, l’effetto della grande crisi dell’università conferma quanto già si sapeva leggendo i giornali o ascoltando parlare gli uomini politici. Si sta cioè dissolvendo l’idea della preminenza delle humanitates come chiave di lettura per interpretare la realtà, sta perdendo di significato l’idea che la Storia sia utile per interpretare il presente, che la Filosofia faccia crescere e mantenga alto il senso critico, che la Letteratura penetri lo spirito dell’uomo e che la Classicità trasmetta quei riferimenti del pensiero che permettono a un individuo di rapportarsi a qualsiasi esperienza e problema. È un’idea di sapere umanistico che ha dato forma all’università dalla sua nascita e che è stata particolarmente viva nel nostro Paese, che ha costruito storicamente la propria identità collettiva sulla paternità dell’età classica. È una radicale, veloce trasformazione in atto, per la quale varrebbe proprio la pena di aprire il sempre invocato “grande dibattito nazionale”. Posto che a qualcuno interessi.

 

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