Se si esercita il mestiere di sociologo nell’area metropolitana di Napoli si può avere la fortuna di non dover andare in cerca dei propri oggetti di ricerca, e questo per una ragione molto semplice: a volte sono loro a cercare te. Mi è accaduto così, per una sorta di serendipity, di condurre una involontaria inchiesta sul campo che potrebbe avere come titolo «che fine fanno gli ottanta euro di Renzi»? Come è noto ai più, il cosiddetto «bonus Renzi» è un credito, introdotto nel 2014 e confermato dalla Legge di stabilità 2016, riservato a chi guadagna fino a 26.000 euro. Un «bonus» che viene riconosciuto dai datori di lavoro direttamente in busta paga. È sempre così? Vediamo cosa accade poi nel mondo reale, come – ad esempio – mi è stato chiarito da tre persone incontrate casualmente nel corso della stessa giornata.

Caso numero uno. Una ragazza seduta accanto a me nello studio di un medico di base ha fretta di tornare al centro estetico dove  lavora per 12 ore al giorno, dal martedì al sabato. Pur firmando un cedolino di 1.000 euro mensili, di fatto ne percepisce 600. In aggiunta a ciò, la proprietaria del centro non trasferisce nella busta paga della giovane gli «ottanta euro di Renzi» che le spetterebbero. 

Caso numero due. In un esercizio commerciale assisto esterrefatta a una discussione animata tra il titolare del negozio e il suo giovane assistente, colpevole di avergli chiesto la corresponsione degli «ottanta euro di Renzi».

Caso numero tre. In una pizzeria d’asporto, in attesa del loro turno, due ragazzi si scambiano impressioni sui rispettivi lavori. Uno racconta all’altro di essere stato assunto come portiere di notte in un albergo. È contento, dice, perché lo «tengono a posto»; ma il suo datore di lavoro non può dargli gli «ottanta euro di Renzi» perché ha troppe spese. L’amico, che lavora al nero presso un carrozziere, prende cinquanta euro alla settimana. «Io gli “ottanta euro di Renzi” me li posso giocare solo come numeri al lotto» – dice ridendo.

Il bonus Renzi, una misura introdotta per affrontare il problema di chi pur lavorando non guadagna abbastanza, rischia dunque di mancare il bersaglio, quando chi ne avrebbe diritto (e spesso più ne avrebbe bisogno) fa parte di un mercato del lavoro privo di regole e lavora alle dipendenze di imprenditori e commercianti rapaci o che sopravvivono a stento, ai quali anche ottanta euro mensili sembrano un bottino utile da portare a casa.

È del tutto evidente, anche senza dover ricorrere ai princìpi della ricerca metodologica per spiegarlo, che tre persone incontrate casualmente non sono un campione rappresentativo; né ho alcuna scientifica certezza a proposito del diritto di questi tre ragazzi agli agognati ottanta euro, tenuto conto della complessità della casistica. Ma allo stesso modo, non dovrebbero essere considerati rappresentativi neppure i tre ragazzi con passamontagna e pistole in pugno in mostra sulla copertina di un numero recente dell’«Espresso». La realtà dei giovani meridionali è fatta di situazioni di sfruttamento lavorativo ai confini della realtà e di rischio di devianza. Forse non sono nemmeno due facce della stessa medaglia, ma soffermarsi solo su uno di questi aspetti è altamente (e pericolosamente) fuorviante.