Il massacro nelle moschee neozelandesi ci interroga a un livello personale profondo prima ancora che politico. Non so quanti abbiano gettato uno sguardo sui propri impulsi più intensi, gli odi irrefrenabili nascosti nell’inconscio. È una questione di vissuto personale, di motivazioni che molto spesso non riusciamo a cogliere; ma là dove possiamo arrivare scopriamo, se abbiamo il coraggio di ammetterlo a noi stessi, una congerie di immagini che si sono venute man mano formando guidate dalla cultura a cui apparteniamo e che rimandano a pulsioni più profonde. Sono immagini potenti di protezione e di sicurezza, di pericolo e di minaccia che tamponano, per così dire, i conflitti interiori che tormentano ognuno di noi, anche se non li pacificano, anzi.
Si tratta di immagini che senza accorgercene elaboriamo dal quotidiano, dalla famiglia e dagli amici, dal modo in cui tratteniamo quanto vediamo e leggiamo, dalle nostre situazioni lavorative e sociali, dal nostro personale mondo immerso nel più vasto mondo e nella cultura in cui viviamo. È qui che le immagini di migranti bambini annegati nel Mediterraneo inteneriscono; ma i migranti in mezzo a noi, se bene ci esploriamo, fanno alzare barriere o almeno increspature di repulsione. Una donna del Bangladesh infagottata in mille stoffe di cui si individua il corpo sformato dalle gravidanze solleva laggiù, giù, giù, un sentimento di insofferenza, di fastidio che in molti vira nella volontà di liberarle, di dar loro empowerment secondo la bella espressione inglese; ma il fastidio si inabissa, può inquinare il senso della realtà e portare, ad esempio, a estremizzare il bene, a farne un assoluto che non risponde che a se stesso perché laggiù continua ad ansimare il sentore di un’intromissione, una sorta di violenza al nostro mondo interiore incantato. Un mondo che sappiamo essere un incantamento, però anche nel non esistere è nostro. Una violenza come quando un bambino più forte si porta via la palla o quando un maschietto si intromette nel gioco di un gruppo di bambine sconvolgendolo con la propria veemenza. Un’aggressione, insomma, quella donna del Bangladesh.
Il politicamente corretto mi dà fastidio e non mi rifugio nella retorica dell’embrassons nous, del “volemose bene”, dell’accoglienza senza no e senza ma perché la ritengo sbagliata, una fantasia consolatoria in quanto, come scriveva James Madison, “Se gli uomini fossero angeli non ci sarebbe bisogno di governo” – non lo sono, e “per distruggere le fazioni occorrerebbe distruggere la libertà” – e anche le fazioni ci sono. Le pulsioni profonde sollevate dalla donna del Bangladesh vanno allora riconosciute, ammesse nella loro potenza estrema non come una colpa, ma come una struttura dell’io, e quindi gestite al pari di tante altre immagini di violenza immaginaria, cresciute da quel fastidio profondo e divenute “sacre”, incoercibili, alle quali si risponde sempre con sentimenti aggressivi. Così i miti astratti dalla storia come la battaglia di Lepanto – una vittoria resa mitica che non intaccò la supremazia ottomana nel Mediterraneo – o quella di Poitiers – senza dubbio fondamentale per bloccare la conquista del regno dei Franchi da parte di una potenza straniera, ma che non fondò l’Europa cristiana – alle quali occorre, si deve, affiancare, se si vuol far storia, la vittoriosa resistenza araba all’invasione dei Crociati, divenuta anch’essa mito della volontà di Dio. Scontri di regni, di imperi e di religioni nessuno dei quali trionfò. In tutti questi e tanti altri casi si tratta di immagini decontestualizzate, sacralizzate, al di sotto delle quali si trovano terrori di conquista del proprio recinto culturale da parte di un recinto altro, estraneo e sempre peccatore. Immagini che si espandono al di là di ogni effettivo massacro, esigono vendetta e divengono il basamento su cui costruire – per generazioni – figure orrende di demoni oscuri che coprono il cielo e piombano a distruggere case e famiglie e fedi.
E se guardiamo al nostro mondo incantato di europei bianchi e cristiani? Sempre incontaminato? La Riforma non ha solo “spaccato” la cristianità, ha dato luogo a odi indicibili e a guerre secolari fra bianchi di una crudeltà inaudita che anche cessate lasciarono una striscia di pericolo e un fastidio che non si è ancora del tutto spento. Negli Stati Uniti quando in meno di vent’anni, a metà Ottocento, giunsero un milione e mezzo di irlandesi che fuggivano dalla morte per fame in patria, li si escluse, li si trattò come esseri inferiori in quanto cattolici. L’immagine iconica del razzismo verso gli africani, quella della scimmia, venne applicata, forse per primi, agli irlandesi, animaleschi, ignoranti, privi di libero volere in quanto servi del Papa – per molti l’Anticristo –, pericolosi e incapaci di vivere da cittadini in una repubblica democratica. Ancora a metà Novecento i cattolici, tutti, non erano ammessi nei circoli esclusivi del potere. Ricordo appena le due guerre mondiali e i manifesti di propaganda di entrambe le parti che incitavano alla difesa, della patria, della famiglia, della religione contro orde di barbari assassini, spesso disegnati come ombre nere, incubi. Ed erano tutti europei bianchi e cristiani. Poi c’è la Shoah, il tentativo concreto addirittura di estirpare, di strappare dalle radici la gramigna di un altro gruppo di europei nel nome della purezza ariana, armonica, perfetta, e qui siamo al culmine di fantasie edeniche che generano persecuzioni.
Le pulsioni profonde che ci animano sono il fil rouge che a partire da un fastidio incontrollato per il velo islamico scende fino al buio del terrorismo. Eppure quando ero bambino la veletta per le donne esisteva ancora e il cappellino era il segno sotteso della rispettabilità femminile, pur se moda e civetteria erano quello più immediato. Le suore non tengono forse i capelli coperti per “modestia”, cioè per evitare il significato sessuale delle chiome sciolte? Maria Maddalena, la peccatrice, non è sempre stata dipinta con capelli fluenti fino a mezza schiena? Non intendo certo dire che dal velo si scenda necessariamente al terrorismo, altrimenti povere suore. I fattori sia interni, di difficoltà psichiche, che esterni, sociali e culturali, sono determinanti; ma quel rumore di fondo, quel singhiozzo che ha il suono del bambino spaventato se la madre scompare, è il seme che persiste in ognuno, che senza neppur lontanamente giungere all’assassinio nutre l’indifferenza o lo scarso contrasto al fiorire di immagini che dal profondo costruiscono sentimenti di timore e repulsione.
Se non amo il politicamente corretto non amo neppure lo psicologume che finisce pur esso nel vicolo cieco delle fantasie consolatorie quando non nutre altri conflitti interiori. La realtà, la necessaria realtà del governare in un mondo di fazioni, così lucidamente espressa da Madison, porta in primo piano la politica e con essa non soltanto un abbraccio concreto con chi soffre di torture, di persecuzioni o solo di un limitato empowerment; ma anche l’accettazione, vigile, dei limiti pratici dell’agire e dell’uso inevitabile di quel monopolio della violenza su cui sono costruiti gli stati e tendenzialmente ogni comunità. Un paradosso solo apparente questo come quello fra fazioni e libertà. Non basta. Ci sarebbe una montagna di carbone da spalar via prima di parlare di politica, quella montagna che porta alla repulsione, alle fantasie persecutorie che hanno ben poco a che vedere con i pericoli reali. Riconoscere il singhiozzo che è in noi, la visione edenica del bene che ci illude, porta nel profondo e illumina più dell’amore per l’altro, lo precede e consente di costruire difese più mature contro i fantasmi, pur se è vero che non potremo eliminare i conflitti interiori. Si può giungere a conoscerli, a gestirli, a contenere il vago sentore di fogna, a erigere barriere contro l’irrompere di torme di topi e della peste con essi.
Proporre quanto detto come una ricetta sarebbe un’altra fantasia consolatoria. Non ho un’utopia psicodinamica con cui rigenerare la politica. Credo in un lavoro di maturazione, di educazione interiore che può giungere a essere pubblico. È una strada per rendersi conto del perché quella donna bengalese infastidisce, per avere un timone che colleghi l’esperienza privata a quella pubblica, per far arretrare di un passo i fantasmi e discutere di una politica più lucida, più attenta alle trappole del desiderio e ai loro deliri persecutori. E se questo è psicologume mi sono intrappolato da solo.
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