Siamo il Paese di Beccaria, come è stato ricordato anni fa alle Nazioni Unite quando venne approvata la moratoria sulla pena di morte da parte dell’Assemblea generale. Ma sembra che facciamo fatica a rammentarlo. L’eredità ancora viva di Beccaria riguardava la vergogna (e l’inutilità giuridica e sociale) della tortura e della pena di morte, e la necessità della certezza della pena: che aveva alla base la convinzione che la dignità dell’uomo, di ogni essere umano, fosse il principio basilare di ogni giustizia.
Le reazioni che si sono avute di fronte al richiamo della Cassazione, che ha chiesto al Tribunale di sorveglianza di Bologna di motivare meglio le ragioni del rifiuto dell’istanza di sospensione della pena chiesta per motivi di salute dai difensori di Totò Riina, sembrano andare (quasi) tutte nella direzione opposta a quella della cultura di Beccaria e dei diritti umani di cui ci riempiamo troppo spesso, inutilmente e ipocritamente, la bocca.
Non colpisce tanto che siano stati familiari di vittime della mafia a ergersi compatti contro qualsiasi ipotesi di attenzione «alla dignità della persona», nel caso di Riina e del suo stato di salute, come ha sottolineato con forza la Cassazione, ricordando che ogni «detenzione inumana» è vietata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, oltre che dalla nostra Costituzione. Le reazioni emotive dei familiari di vittime di reati di sangue tendono generalmente più verso la vendetta che verso la giustizia. Quello che colpisce – e che la dice lunga sul livello etico e morale della nostra classe politica ma anche giudiziaria – sono le reazioni di chi dovrebbe sapere a memoria i doveri del rispetto dei diritti umani, orientando in questo senso la propria attività.
Il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, è stato l’unico ad avere sottolineato con forza «il principio che mette al primo posto la valutazione della dignità della persona». In generale sono prevalsi commenti che hanno ricordato come Riina non avesse mai fatto caso alla dignità delle sue vittime, lasciando intendere, e spesso sostenendo apertamente, che per criminali del tipo di Riina non si possono ipotizzare trattamenti basati su principi di umanità. Tra i primi a contestare il giudizio della Cassazione si è distinto l’ex pm Antonio Ingroia, ma anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, mentre Salvatore Borsellino giunge perfino a ipotizzare che si tratti di una «cambiale» che lo Stato vuole pagare per l’accordo con la mafia contratto venticinque anni fa.
La Cassazione non ha chiesto né la scarcerazione di un criminale condannato per reati gravissimi né ha ipotizzato l’impossibilità di mantenere in regime carcerario-ospedaliero un malato grave. Ha chiesto solo di guardare alla «dignità» di un carcerato famoso e malato. Le reazioni spesso scomposte contro la Cassazione – senza distinzione di partito: membri della commissione antimafia del Pd usano le stesse parole di quelli di Fratelli d’Italia – sembrano dimenticare che proprio la mancanza di «dignità» nei confronti dei detenuti nelle nostre carceri è stata oggetto più volte di condanna da parte di Strasburgo alla politica italiana della giustizia e al regime carcerario disumano in cui sono costretti a vivere gran parte dei detenuti. Parlare dei diritti dei carcerati non rende politicamente e solo qualche associazione benemerita e qualche isolato politico (e solo i radicali nel loro insieme) solleva ogni tanto il problema senza ottenere alcun ascolto da parte della stampa, dell’opinione pubblica, del mondo politico e della magistratura. A maggior ragione quando si parla di condannati per mafia. Tutti hanno voluto insistere nella necessità di continuare a mantenere Riina in regime di 41 bis, anche se la Cassazione ha chiesto se la pericolosità di Riina debba considerarsi ancora attuale «in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato del decadimento dello stesso». Il 41 bis è, per l’Italia di Beccaria, un dogma, un atto di fede, anche se sono numerosi gli studi che mostrano che si tratti prevalentemente se non esclusivamente di un sistema di disumanizzazione del reo che serve solo e principalmente a tranquillizzare l’opinione pubblica.
In decenni lontani la Cassazione rappresentava il pensiero più arretrato e retrogrado che fosse possibile trovare nella società italiana su una gran quantità di argomenti. Oggi, attenta alla lettera e allo spirito del diritto, sembra anni luce avanti dallo spirito del tempo in cui politici, magistrati, giornalisti trattano la questione della pena e della condizione dei detenuti, ignorando il problema cardine della loro «dignità», anche se mafiosi conclamati e condannati.
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