Il 14 giugno è stato presentato a Milano Ceo Factory, un nuovo e grande progetto promosso da GirlsRestart, grazie al quale oltre 100 tra i più importanti amministratori delegati del panorama italiano si mettono a disposizione per essere mentori di donne di talento che aspirano a crescere professionalmente e a ricoprire ruoli apicali in aziende e organizzazioni appartenenti a settori diversi (tra cui tech, beauty, banking, telecomunicazioni, entertainment, pharma, consulenza, servizi, distribuzione, food, energy, Hr).

È solo l’ultimo di una serie di progetti promossi dalla community digitale GirlsRestart, nata durante il lockdown dall’intuizione di Barbara Cominelli, ambassador riconosciuta nell’ambito della digitalizzazione e della promozione del talento femminile nel mondo del lavoro, e da un gruppo di 500 professioniste con l’obiettivo di supportare le donne nel mondo del lavoro. La community conta oggi circa 5.000 appartenenti, diversi progetti di consulenza per il sostegno di imprenditrici e oltre 100 mentorship.

Tra le parole d’ordine: self-confidence, mentorship apicale, leadership del futuro, skill building, networking, talento. In primo piano, sul sito della community, la frase motivazionale: «It’s time to reshape our lives!». Le «nostre vite», cioè quelle di donne appartenenti a un’élite e che aspirano ad affermarsi, con il sostegno di altre donne di successo, in un mondo del lavoro che – soprattutto ai vertici – resta ancora dominato dagli uomini. Subito sotto, la mission racchiusa nell’acronimo «Girls»: generosità, interdipendenza, resilienza, libertà, sostegno. Lessico e valori che riescono a rendere aziendalismo e femminismo perfettamente compatibili.

Come mai non compaiono invece termini quali eguaglianza, emancipazione o giustizia sociale, tradizionalmente inseparabili dalle battaglie femministe e decisamente poco in sintonia con le seduzioni individualiste del capitalismo aziendalista? Per parafrasare la celebre battuta de L’ultima minaccia, «è il neoliberismo, bellezza», che sta colonizzando e addomesticando molti temi del femminismo per renderli addirittura funzionali alla riproduzione di un sistema economico che continua a escludere la maggior parte delle donne. Siamo poi così sicure che un’azienda guidata da una donna socializzata ai valori manageriali della competizione, dell’individualismo e della resilienza, sia necessariamente migliore e più inclusiva di quella guidata da un uomo, soprattutto se si scende la gerarchia lavorativa e si guarda quali sono le condizioni di tutte le donne lavoratrici?

Il neoliberismo sta colonizzando molti temi del femminismo per renderli funzionali alla riproduzione di un sistema economico che esclude la maggior parte delle donne

Nonostante le ottime intenzioni di progetti come Ceo Factory, è una domanda più che legittima in un momento storico in cui storie «a lieto fine» di Ceo donne, meglio ancora se madri, in grado di concludere affari milionari mentre allattano e rassettano la casa, autobiografie di donne «toste» che ce l’hanno fatta, riunioni in rosa e workshop sull’empowerment femminile hanno letteralmente invaso media popolari e mainstream, ormai non soltanto d’Oltreoceano. Queste storie spostano la narrazione sul successo individuale di alcune donne tirando in ballo il loro presunto femminismo, come si è fatto con Sheryl Sandberg, Ivanka Trump o con la nostrana Chiara Ferragni, a dimostrazione che il mondo del lavoro sta cambiando in direzione dell’inclusione delle donne. Una forzatura che rischia di far passare in sordina il fatto che in Italia solo il 49,3% delle donne tra i 18 e i 65 anni lavora, o i più reali problemi che le donne «normali», non solo le Ceo, devono affrontare se decidono di avere un figlio.

Dovremmo chiederci se questa narrazione sia davvero quello di cui abbiamo tutte bisogno. Far passare queste donne «di successo» per eroine dell’emancipazione rischia infatti di veicolare un messaggio che, anziché essere inclusivo, rimane muto per la maggioranza delle donne. «Fabbricare» le nuove leader del futuro puntando sullo sviluppo di skills individuali trasmesse da Ceo di successo sembra infatti uno dei nuovi modi che il neoliberismo ha escogitato per mettere a tacere e addomesticare la parte più emancipatoria e radicale del discorso femminista: quella che non dimentica la matrice socioeconomica della disuguaglianza.

Un altro modo è quello di «rinaturalizzare» tutta una serie di elementi che il femminismo degli anni Settanta aveva contribuito a decostruire, come l’idea che la felicità di una donna possa essere slegata dall’esperienza della maternità e da una vita familiare. Molte donne in ascesa nel mondo del lavoro anelano infatti a una felice conciliazione tra la carriera e la famiglia, nonostante la responsabilità per la riproduzione ricada, ancora una volta, tutta sulle loro spalle o al massimo su quelle di altre donne, spesso donne migranti che si fanno carico della loro quota di lavoro domestico.

È il «femminismo neoliberista», come lo definisce nel suo testo L’ascesa del femminismo neoliberista (Ombrecorte, 2020) Catherine A. Rottenberg, quello che riesce a coniugare le rivendicazioni femministe con le ingiunzioni morali neoliberiste, dell’autoaffermazione individuale, o del divenire imprenditrici di sé stesse, in condizioni che oggi, tuttavia, rendono tali dubbie aspirazioni strutturalmente impossibili per la gran parte delle donne. Si tratta di un femminismo che è espressione della classe professionale manageriale, di donne relativamente privilegiate – donne della classe media o medio alta, con un buon livello di istruzione e per lo più bianche – che stanno provando a farsi strada nel mondo degli affari o dei media. Il loro progetto è di scalare la gerarchia aziendale, di essere trattate allo stesso modo degli uomini della loro stessa classe, con lo stesso stipendio e lo stesso rispetto.

Il femminismo neoliberista ha associato la causa femminista all'élitismo, all'individualismo, all'aziendalismo e a una versione del neoliberismo che vuole mostrarsi progressista

È un femminismo esibito e roboante che però non può essere davvero inclusivo. Non ha molto da offrire alla vasta maggioranza delle donne che sono povere e fanno parte della working class, che non hanno privilegi, che sono migranti, che non sono bianche, che sono trans o non cis-gender. Come osserva Nancy Fraser in Femminismo per il 99%. Un manifesto (Laterza, 2019), scritto insieme a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya, questo femminismo dell’1% o, forse, al massimo del 10% ha associato la causa femminista all’elitismo, all’individualismo, all’aziendalismo e a una nuova versione del neoliberismo che, sventolando slogan «sostenibili», prova a mostrarsi progressista.

«Femminismo per il 99%» significa, al contrario, proporre un progetto di femminismo che parta dalla situazione delle donne povere e delle lavoratrici, e che si chieda cosa fare per migliorare le vite delle donne. Forse è questa la narrazione di cui abbiamo tutte bisogno. Una narrazione che, rimettendo le dimensioni di classe e razza al centro e abbandonando un lessico che ricorda spesso l’antilingua di cui parla Italo Calvino, prenda le distanze dal femminismo liberal-aziendalista che ha dominato il dibattito negli ultimi due decenni, per riuscire a pensare in maniera allargata alle crisi che attraversano drammaticamente la nostra società, forse anche scegliendo parole nuove. Il femminismo o è per tutte e tutti o non è. Femminismo al 99%, allora, non significa soltanto il 99% delle donne, ma il 99% degli esseri umani sul pianeta.