«Parisi ha ragione», dice il premier Mario Draghi, «il finanziamento della ricerca è inferiore di gran lunga a quello dei Paesi intorno a noi e la determinazione del governo è colmare questo divario per quanto possibile, sia per i fondi della ricerca di base sia per i fondi della ricerca applicata».
Il 5 ottobre scorso l'Accademia reale delle scienze svedese ha annunciato che Giorgio Parisi è uno dei vincitori del Nobel per la fisica. Parisi è un fisico teorico che si è formato, ha lavorato e lavora a Roma, e negli ultimi tre anni è stato presidente dell'Accademia dei Lincei. Dopo un crescendo di prestigiosissimi riconoscimenti, tra cui la Medaglia Boltzmann e il Premio Wolf, ha ricevuto il Nobel «per la scoperta della relazione tra disordine e fluttuazioni nei sistemi fisici dalla scala degli atomi a quella dei pianeti».
Per molti tra i migliori fisici del mondo, per moltissimi colleghi internazionali, per i suoi collaboratori e per gli studenti dell'Università La Sapienza che hanno seguito i suoi corsi, Giorgio è uno scienziato di livello eccelso, uno di quelli che da sempre siede a quel tavolo immaginario coi giganti della storia della fisica, dal periodo ellenistico ai nostri giorni.
Giorgio Parisi è uno scienziato di livello eccelso, uno di quelli che da sempre siede a quel tavolo immaginario coi giganti della storia della fisica, dal periodo ellenistico ai nostri giorni
Ma che cosa fanno veramente i fisici? Quelli teorici fanno un mestiere affascinante: descrivono il mondo cogliendone l'essenza e lo fanno così bene che coi loro metodi si possono fare spesso previsioni accurate o, altre volte, si può capire perché le previsioni siano parziali o impossibili. Sempre da quei metodi proviene la nostra capacità di costruire macchine prodigiose come quelle che hanno trainato la rivoluzione industriale con tutte le sue diramazioni e quelle che traineranno le prossime. Per fare tutto ciò i fisici utilizzano, nella tradizione galileiana, quello straordinario linguaggio quantitativo che è la matematica. Ovviamente la parte di mondo descrivibile con la fisica è molto limitata, ma, provando e riprovando, si allarga gradualmente con il progredire della ricerca.
Quest’anno il Nobel è stato assegnato per la comprensione dei sistemi fisici complessi e nel caso di Parisi soprattutto per la sua teoria fisico-statistica che lega disordine e fluttuazioni. Per descriverla in modo colloquiale, ci si può ispirare alla stessa efficace metafora utilizzata nell’introduzione del testo di Mézard, Parisi e Virasoro: si consideri un sistema composto da tante particelle e per fissare le idee le si immagini come un gruppo di persone. Se ogni loro interazione è cooperativa il sistema troverà presto un accordo condiviso e il consenso raggiunto sarà certo e soddisfacente per tutti. Se invece le interazioni sono disordinate, alcune cooperative e altre competitive, non si troverà un accordo che soddisfi tutti e i compromessi migliori saranno molto difficili da raggiungere. In questo secondo caso il consenso ottenuto sarà intrinsecamente fluttuante. Dalla natura di quelle fluttuazioni la teoria di Parisi è inoltre in grado di ottenere le principali proprietà di quei sistemi.
Quando Parisi si è avvicinato a questi temi alla fine degli anni Settanta, essi non erano di moda e non avevano rilevanti applicazioni pratiche. La loro comprensione, come diceva il fisico americano che li ha proposti alla comunità (P.W. Anderson, Nobel per la fisica nel 1977), meritava comunque uno studio approfondito per il semplice fatto che essi rappresentavano un autentico mistero scientifico.
Il Nobel a Parisi quindi è stato assegnato per un risultato teorico che ha anticipato molti degli esperimenti successivi, una teoria liberamente inventata, come amava dire Einstein, una di quelle che la penna deposita nel foglio bianco e che poi, nel tempo, diventa essenziale per capire tutta una serie di fenomeni reali. C’è stato tuttavia un lato sperimentale, se così lo si può chiamare, che ha accompagnato il suo lavoro ed è quello virtuale delle simulazioni al calcolatore. Usando la sua leggendaria familiarità col computer sin dagli anni Ottanta, quando i più lo consideravano un aggeggio infernale, Giorgio ha sempre confrontato la sua teoria coi dati prodotti dalla macchina in una sorta di meta-esperimento ricevendo feedback e conferme.
A oltre quarant'anni di distanza dalla sua scoperta, lo schema concettuale alla base di quella teoria, sviluppato nelle ricchissime collaborazioni che l’autore ha avuto, è diventato un nuovo paradigma della scienza. Esso rappresenta un metodo interpretativo con applicazioni, per citarne solo un paio, al comportamento dei materiali vetrosi e a quello dei laser aleatori. Ma non solo. Un fatto non comune per una teoria nata nell'alveo della fisica teorica è che quello stesso schema ha fertilizzato campi distanti dalle scienze dure e aperto nuovi orizzonti come nel caso dei sistemi biologici, del sistema immunitario, dei meccanismi con cui viene modellizzata la memoria associativa nel cervello, dei sistemi ecologici, economici, finanziari etc. La reti neurali infine, che hanno condotto a quelle meraviglie della moderna intelligenza artificiale basata sull'apprendimento automatico, vengono studiate con idee, metodi e tecniche della teoria di Parisi.
Ma come viene fuori un vincitore di Nobel? È una questione di natura o cultura? Un insieme di doti naturali innate o l'ambiente intellettuale in cui è cresciuto? Certamente è l'insieme delle due cose mescolate ad arte, secondo una ricetta segretissima. L’intuito naturale di Giorgio, le sue capacità analitiche e la sua curiosità si sono trovate immerse in quella scuola di fisica italiana che Amaldi aveva radunato nel Dopoguerra a Roma con l'eredità di Fermi. Tra i suoi maestri primo tra tutti il fisico Cabibbo, tra i suoi colleghi Altarelli, Maiani, Jona-Lasinio e Francesco Guerra. A quest'ultimo si devono alcune delle migliori idee che hanno condotto alla lenta metamorfosi, ancora in corso, di quella geniale teoria di Parisi in un costrutto matematicamente rigoroso deducibile dai principi della termodinamica, una trasformazione che ha permesso ai matematici di approcciarsi allo studio dei sistemi disordinati. L'ambiente romano, al tempo di Giorgio, è diventato la scuola di eccellenza del Paese, quella che attira al tempo stesso i migliori studenti, i migliori docenti e i migliori visitatori internazionali. Un fenomeno notevole e contro tendenza si manifesta infatti ai convegni sui sistemi disordinati: durante le discussioni a gruppetti o le pause per i caffè, sia che si svolgano a Parigi, sia a Kyoto o in un ateneo statunitense, molti stranieri parlano italiano con gli italiani e non di rado tra loro come facevano a Roma alla scuola di Giorgio.
E come viene fuori l'assegnazione di un premio prestigioso? La scienza non si misura in centimetri come le altezze. In un gruppo puoi sempre mettere in fila le persone e scegliere quella più alta, ma il talento è una qualità infinitamente più ricca. Nel valutarlo ci si basa sostanzialmente sull'impatto del contributo scientifico, ma siccome la scienza è anche potere e ricchezza per il Paese che la ospita, è naturale che intervengano fattori come quelli politici oltre a quelli personali. È naturale dico, ma non è ovvio. Certamente alcuni Paesi al mondo ne sono ben consapevoli e nel momento in cui serve presentare un loro candidato a un prestigioso premio internazionale mettono a tacere le tensioni interne, scelgono il loro campione, e si esprimono come fossero un sol uomo. Uno scienziato meritevole che lavora in quei Paesi dove la scienza ha la considerazione che merita avrà le sue oneste possibilità di ricevere i premi a cui può ambire. Ma il nostro Paese non ha sempre la consapevolezza di essere un Paese. È troppo impegnato a rincorrere le finanziarie come fossero palloni che rotolano per le scale, a mettere in scena e godersi talk show dove influencer, comparse e politici improvvisati discettano su tutto, di tutto e di più, specialmente nei campi di competenza altrui. E quindi succede che gli italiani che ricevono riconoscimenti lavorano più spesso all'estero dopo essersi formati in Italia, coadiuvati da un’organizzazione che noi non riusciamo più a esprimere dopo averla inventata ai tempi dell’Impero romano.
Succede che gli italiani che ricevono riconoscimenti lavorano più spesso all'estero dopo essersi formati in Italia. Un Nobel che giunge a un italiano che lavora in Italia è quindi un fenomeno diverso, che ha seguito un iter diverso
Un Nobel che giunge a un italiano che lavora in Italia è quindi un fenomeno diverso, che ha seguito un iter diverso. Il Nobel a Parisi è stato un processo naturale e inarrestabile di accumulo di credito scientifico, coadiuvato dalle collaborazioni e dall'ammirazione che lo hanno circondato. L’ambiente scientifico italiano insieme a quello internazionale si è spontaneamente unificato intorno a questo straordinario scienziato dal carattere gentile, alieno ai conflitti e generoso nella condivisione delle sue idee e lo ha accompagnato al podio. Inutile aggiungere, come lui stesso lamenta spesso, che molti ricercatori italiani non hanno ricevuto il riconoscimento che hanno meritato.
Parisi si è sempre occupato e preoccupato della salute della scienza in Italia, delle sue drammatiche necessità, prima tra tutte la mancanza di investimenti. Non è un mistero né una sorpresa che i suoi appelli siano stati sistematicamente ignorati nonostante le promesse fatte dalla politica. Fa molto piacere quindi che il Premier Draghi si esprima in quei toni, magari è la volta buona per dare una svolta cogliendo l’occasione del Pnrr. Parisi stesso tuttavia ha accettato con molta cautela l'ottimismo del ministro dell'Università e della Ricerca la sera dei festeggiamenti nell'aula magna della Sapienza.
Cinque anni fa sintetizzava i suoi appelli in questo modo: «In un mondo dominato dall’economia della conoscenza, un Paese che non investe in ricerca, sviluppo e cultura non ha futuro». Ora che quello è diventato l’appello di un Nobel chissà se basterà a convincere il governo che un futuro ci farebbe comodo.
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