Profughi e barriere. Israele è da sempre Paese d’immigrazione, essendosi costruita, nel corso del tempo, attraverso il flusso costante di ebrei provenienti dall’estero. Da almeno quattro lustri, non diversamente da quanto accade in molti Paesi occidentali, si è dovuta confrontare con l’ingresso di persone di origine non ebraica, alla ricerca di occasioni di lavoro che sembrano non mancare.
L’immigrazione dei lavoratori stranieri (molti provenienti dal Sud Est asiatico) è rigorosamente filtrata, i permessi di lavoro che vengono loro concessi non possono infatti superare la durata di cinque anni, ma per quanti entrano nel Paese illegalmente il discorso è diverso. Attualmente il ministero dell’Interno calcola una presenza di circa 280.000 irregolari su una popolazione di 8 milioni di abitanti. Di questi, 46.000 sono eritrei, etiopi e sudanesi. Dopo l’intensificarsi della politica italiana dei respingimenti e la guerra in Libia, il numero di accessi è andato lievitando. Nel 2010 erano 14.735, l’anno successivo sono ulteriormente cresciuti mentre, per quello corrente, gli ingressi clandestini censiti sono già stati 8.664.
Giusto a titolo esemplificativo, nel maggio del 2011 gli accessi erano 637, un anno dopo sono più che triplicati, passando a duemila. Una parte di essi è costituita da africani che scelgono volontariamente di recarsi nello Stato ebraico, ma i movimenti dei profughi si consumano perlopiù attraverso il poroso confine egiziano. Il passaggio avviene nella penisola del Sinai, dove Israele ha istituito una cinquantina di cantieri per costruire una barriera di cemento e filo spinato, della lunghezza di 240 chilometri. È una sorta di terra di nessuno nella quale non è infrequente che molti, dopo essere stati rapiti dai gruppi di «passatori» che controllano brutalmente il traffico dei fuggitivi dall’Africa, ricattandoli e costringendoli a pagare una taglia per la propria liberazione, vengano poi abbandonati o consegnati alle tribù beduine che controllano il territorio circostante. Si tratta di «merce umana», contrabbandata in modo spietato, che vaga alla ricerca di una qualche meta, fuggendo dalla guerra e dalla povertà.
Se il premier Netanyahu ha parlato della necessità di «mantenere il carattere ebraico dello Stato d’Israele», i toni dei suoi alleati sono stati più aspri
Israele osserva gli effetti di questa transumanza con preoccupazione. Se il premier Netanyahu ha parlato della necessità di «mantenere il carattere ebraico dello Stato d’Israele», i toni dei suoi alleati sono stati più aspri, arrivando a definire gli immigrati irregolari «infiltrati», che costituirebbero, con la loro presenza, un pericolo costante per il Paese. Alcuni politici hanno evocato parole come «spazzatura», «peste» e «cancro», invitando le forze dell’ordine a ricorrere alla forza. È da almeno un paio d’anni che in Israele va crescendo l’insofferenza verso queste presenze indesiderate. Non è solo il giudizio di alcuni partiti, ma c’è una lievitante indisponibilità da parte dei cittadini che, negli ultimi tempi, hanno, in diversi casi, manifestato apertamente la loro intolleranza, anche con il ricorso ad atti di violenza.
A Tel Aviv gli immigrati irregolari si sono concentrati sia nella zona limitrofa alla stazione dei bus, considerata da molti un’area infrequentabile, sia nei quartieri più poveri, come il rione Shapira. A Gerusalemme sono presenti nel quartiere di Makor Baruch, nel centro della città, dove l’insediamento di famiglie tradizionaliste, perlopiù di origine sefardita, è più robusto. Il loro arrivo ha creato da subito molte tensioni.
Il timore dei governanti è che la mancanza di una chiara politica dei respingimenti possa costituire una sorta di passepartout per una grande massa di profughi e apolidi
Il timore dei governanti è che la mancanza di una chiara politica dei respingimenti possa costituire una sorta di passepartout per una grande massa di profughi e apolidi. La cittadinanza, invece, teme che la presenza di indesiderati possa costituire un elemento di ulteriore competizione in un mercato del lavoro in cui il tasso di disoccupazione è contenuto (intorno al 6%) ma il livello retributivo è molto basso. Si inquadrano, quindi, in queste logiche sia l’introduzione nella legislazione di una norma che condanna i clandestini alla detenzione fino a tre anni senza processo, sia l’ipotesi di un loro trasferimento nel centro di accoglienza di Saharonim. Il centro è ubicato nel Neghev, il deserto che si trova nell’area meridionale del Paese, ed entro la fine dell’anno vi saranno approntati 12.000 posti di permanenza temporanea per persone in attesa di espulsione, probabilmente verso Cipro e la Libia.
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