Un re con una corona a metà. Ci sono voluti poco meno di due mesi per varare il nuovo governo israeliano, quello che prende le mosse dalle elezioni legislative della seconda metà di gennaio, svoltesi con qualche mese di anticipo rispetto alla naturale conclusione della legislatura; queste ultime avevano peraltro comportato alcune sorprese.
I risultati delle urne non erano infatti riusciti a premiare Benjamin Netanyahu, il capo del governo uscente. Il leader del Likud aveva stipulato un accordo con Israel Beitenu, la lista capitanata da Avigdor Lieberman, nella convinzione che l’asse di destra, di cui era – e rimane – l’esponente più importante, potesse uscire rafforzato dalla prova; in attesa, peraltro, di mettere mano a una complessa e difficile manovra di bilancio. La convocazione degli elettori serviva quindi a consolidare il mandato della destra, cercando di posticipare malumori e disaffezioni di una parte di coloro che si vedranno costretti a pagare di tasca propria le politiche finanziarie restrittive.
Nei fatti il risultato elettorale ha però disegnato una geografia parlamentare diversa da quella attesa. Sui 120 seggi della Knesseth, il Parlamento israeliano, 61 sono andati alle formazioni di destra nonché a quelle religiose, mentre la parte restante all’ampia area del centro e della sinistra. Una ventina di liste e partiti minori non hanno invece superato la soglia di sbarramento del 2%. Netanyahu e Lieberman, unitisi, hanno perso un quarto dei voti, passando da 42 a 31 seggi. Determinante è risultata la vittoria del nuovo partito centrista Yesh Atid, che si è assicurato ben 19 seggi, travasando i voti che precedentemente erano stati di Kadima. Non di meno, in un Paese che sembrava consegnato a un costante slittamento a destra, un buon risultato è stato anche quello conseguito dai laburisti, con un incremento del 21% dei consensi, e del Meretz, lista della sinistra sionista, che li ha addirittura aumentati del 7%. Di fatto, la sinistra rimane all’opposizione ma la destra non può cantare vittoria.
Il premier incaricato Benjamin Netanyahu è riuscito infine a comporre una maggioranza di centrodestra capace di raccogliere 68 dei 120 seggi presenti nella Knesseth
Dopo lunghe e laboriose consultazioni, quasi allo spirare del mandato ricevuto dal presidente Shimon Peres e in prossimità del viaggio di Barack Obama nel Paese, il premier incaricato Benjamin Netanyahu è riuscito infine a comporre una maggioranza di centrodestra capace di raccogliere 68 dei 120 seggi presenti nella Knesseth. Ci è riuscito evitando di imbarcare i partiti religiosi haredim (Shas e Yahadut Hatorahm, solitamente definiti “ultraortodossi”), cresciuti nel loro insieme del 21%, così come i laburisti.
Lo scenario che voleva quindi un Israele completamente sbilanciato verso il right-side dello spettro politico non ha trovato riscontro. Non di meno Netanyahu, che pure può ancora contare sull’assenza di avversari capaci di mettere in discussione il credito che raccoglie tra la popolazione, è uscito fortemente ridimensionato.
Le elezioni legislative hanno infatti confermato la pervicacia e la rilevanza di quell’elettorato di ceto medio che si riconosce nei temi della laicità. In discussione è infatti la questione della partecipazione dei gruppi ultraortodossi agli obblighi richiesti dallo Stato, a partire dal servizio militare. La questione va al di là del suo aspetto specifico, anche se molto sentito, per rinviare al problema del rapporto tra istituzioni pubbliche, società civile e religione in un Paese dove la secolarizzazione culturale, pur molto avanzata, deve confrontarsi con il patrimonio civile e morale di un ebraismo da tanti sentito anche come identità religiosa. I conflitti che da ciò derivano rimandano alla complessa stratificazione della società israeliana, che in questi ultimi trent’anni ha sempre di più vissuto tra due campi di forza opposti: quelli di una globalizzazione socioculturale in cui il Paese è parte integrante in quanto attore di primo piano e il particolarismo identitario presente non solo in alcune frange minoritarie. Non di meno, nell’agenda del nuovo governo entra di peso il problema della negoziazione con i palestinesi, dopo uno stallo che dura dal 2000, e per la quale Yesh Atid ha detto di volere giocare un ruolo attivo.
Nell’agenda del nuovo governo entra di peso il problema della negoziazione con i palestinesi
Gli spazi di manovra non sono molti, complici anche le difficoltà economiche che in Israele hanno a che fare soprattutto con il basso livello di remunerazione della forza lavoro, specialmente giovane. Rimane il fatto che tali spazi di manovra, che Netanyahu cercava di allargare, si sono per lui ristretti. Un re con una corona a metà, in altre parole.
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