Non ci sono ragioni economiche per continuare a lavorare ancora cinque giorni alla settimana, dopo oltre ottant’anni. Ci sono, al contrario, forti argomenti economici per tagliare l’orario e lavorare fino al giovedì. Così, cambiare tutto: la nostra vita, il capitalismo, la politica. Basta leggere con attenzione Karl Marx, John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter e anche Friederich Hayek.
Come ha fatto Pedro Gomes, giovane, brillante, economista portoghese, professore alla Birkbeck University di Londra, grande esperto di lavoro pubblico. Ha scritto un libro raffinatissimo (Finalmente è giovedì. 8 ragioni per scegliere la settimane corta, Laterza, 2023), miscelando il miglior pensiero economico degli ultimi due secoli con la rivoluzione digitale; la domanda di tempo libero con la crescita della produttività; il burnout con l’aumento del Pil; la lotta alla disoccupazione con l’incremento dei salari. Senza contraddizioni. Per dire che è arrivato il momento di far diventare venerdì “il nuovo sabato” e il XXI secolo quello della settimana di quattro giorni. Prefigurando quel che sta accadendo timidamente anche lungo la nostra penisola: da Luxottica, a Lamborghini, a IntesaSanpaolo. E già, molto più convintamente, in diversi altri posti al mondo. “Lavorare cinque giorni alla settimana – sostiene Gomes – non è scritto nei nostri geni, nella Bibbia o nelle stelle. La settimana lavorativa è una costruzione economica, sociale e politica”. Ecco, appunto.
Qui c’entrano poco il rifiuto del lavoro (per quanto si intraveda in tante pagine del libro) e la fine della centralità (etica?) del lavoro. Quel che è in gioco è un modo diverso (migliore) di produrre, liberando uomini e donne da una quota di fatica (non più e non solo fisica) ingiustificata con la nuova trasformazione tecnologica. Perché si può, perché la pandemia ha accelerato un processo, anche culturale, già iniziato mettendo profondamente in discussione certezze impolverate. E perché – ed è qui l’originalità della ricerca di Gomes – le leggi dell’economia lo consentono, smentendo luoghi comuni, analisi pigre e datate, abitudini consolidate. Può riguardare tutti, la via è quella legislativa prevedendo un congruo periodo di transizione (quattro/sei anni) per arrivare preparati a quello che per l’economista “sarà effettivamente dirompente come un ciclone”, tanto per citare Schumpeter.
Quel che è in gioco è un modo diverso (migliore) di produrre, liberando uomini e donne da una quota di fatica (non più e non solo fisica) ingiustificata con la nuova trasformazione tecnologica
Lavorare meno, dunque, e a parità di salario. Non per redistribuire l’occupazione che c’è, come si pensava negli anni Settanta o nella Francia delle 35 ore, ma perché – questo sì – è sconfessato dalle regole dell’economia dal momento che presuppone che posti di lavoro e produzione in una economica siano fissi. Non è così, un sistema economico è costantemente in movimento, in adattamento dinamico. La questione, insomma, è più complessa, ma pure più interessante. Anche Marx – scrive Gomes – “avrebbe cercato di guardare le cose da un altro punto di vista, ad esempio osservando che, per un motivo differente, la misura (la settimana di quattro giorni, ndr) porterebbe meno persone a perdere il proprio lavoro”. La robotizzazione dei processi produttivi e non solo finirà per accrescere la disoccupazione tecnologica, ma i meno potenziali dipendenti saranno esattamente compatibili, quasi complementari, con una riduzione dell’orario di lavoro. Un percorso nel breve periodo a somma zero, ma poi – in altri settori e per altre mansioni – si creeranno nuove opportunità di occupazione, avendo i lavoratori anche più tempo per la propria riqualificazione.
Veniamo a Keynes, allora. Il quale ipotizzò addirittura un atterraggio a quindici ore a settimana. L’intuizione era giusta. Certo, nel dettaglio la previsione fu sbagliata, ma è decisamente keynesiana l’idea di stimolare l’economia attraverso la domanda, grazie all’aumento dei consumi collegato al minor tempo dedicato al lavoro, contribuendo all’economia. Quando (1938) negli Stati Uniti si passò ai cinque giorni di lavoro alla settimana, l’economia crebbe. Dopo il 1995, anno in cui in Cina si è passati per via legislativa ai cinque giorni lavorativi a settimana, “il numero di viaggiatori interni è quintuplicato e la spesa media pro capite per il turismo interno è aumentata di sette volte. Sono stati costruiti parchi a tema […], oltre strutture sportive e luoghi culturali. Sono proliferati gli spettacoli artistici e di intrattenimento. Il turismo e le industrie connesse rappresentano oggi più del 10% del Pil cinese”. Prepariamoci al boom della nuova economia del weekend, in particolare in Europa e in Italia.
Il dilagante burnout di questo nuovo secolo è frutto di un carico di lavoro complessivo esagerato
Già, ma poi con meno ore di lavoro rischia di crollare la produttività. Qui serve Schumpeter, ma anche qualsiasi altro economista, perché la produttività marginale di quasi tutti i lavori tende inesorabilmente a scendere. Insomma all’ottava o nona ora di lavoro si produce peggio, così il venerdì. Henry Ford lo capì nel secolo scorso introducendo nei suoi stabilimenti automobilistici i cinque giorni (e non più sei) di lavoro. Il dilagante burnout di questo nuovo secolo è frutto di un carico di lavoro complessivo esagerato. Cambiare, dunque. Accrescere la produttività. E innovare. Ancora Schumpeter: “Senza le innovazioni, non ci sarebbero gli imprenditori; senza il successo imprenditoriale non vi sarebbe né il rendimento del capitale né il ruolo propulsivo del capitalismo”. Però le idee innovative nascono nelle pause, fuori dal lavoro. Perché “le innovazioni – scrive Gomes – hanno bisogno di tempo”. Aristotele: “Gli uomini, non potendo agire continuamente, hanno bisogno di riposo. Ma il fine non è il riposo: esso infatti sorge solo in vista dell’attività”.
Più idee, meno orario e, però, più salario. Lo pensava anche Marx, perché – innanzitutto – aumenterebbero le retribuzioni orarie dopo che, negli Usa come in Europa, “il legame tra produttività del lavoro e salari reali si è spezzato”. Con i lavoratori che “non stanno più raccogliendo i benefici della crescita economica”. Il taglio dell’orario, allora, per ricominciare a ricomporre l’equilibrio nella distribuzione del reddito tra capitale e lavoro. Un passo decisivo per attenuare le diseguaglianze prodotte negli ultimi decenni.
L’approccio di Gomes è a tratti rivoluzionario. Indica una prospettiva generale, in un mondo ancora ingolfato nella disordinata ricerca di una via d’uscita dal neoliberismo. Scrive che la riduzione dell’orario di lavoro non è né di destra né di sinistra, che può servire a riconciliare la società con il capitalismo. Togliendo ossigeno al “momento populista”, attenuando la polarizzazione sociale e politica, ripensando la globalizzazione, migliorando la qualità della vita. “Le persone – scrive Gomes – saranno più felici e chi è felice non vota per i ciarlatani”. Sì, si può (si deve?) lavorare quattro giorni a settimana. Una scelta di libertà che piacerebbe tanto anche a Friedrich August von Hayek.
Riproduzione riservata