La vita politica francese è piena di sorprese. Sorprese ritardate da meccanismi istituzionali che distorcono la realtà politica, economica e sociale, ma che poi risultano amplificate nel momento in cui la diga cede tutta d’un colpo, come è accaduto ieri sera.
In Francia i cambiamenti avvengono di rado, nonostante li si reclami continuamente. Cosa che il generale De Gaulle aveva così sintetizzato: «Les changements en France se font dans la foulée d’une révolution». «Rivoluzione» è esattamente il titolo dato da Emmanuel Macron al suo libro lo scorso anno, quando, novello Bonaparte, ha tentato l’impossibile infilandosi tra i due protagonisti del duopolio destra-sinistra. I repubblicani da una parte e i socialisti dall’altra.
L’esclusione delle due grandi formazioni di governo al secondo turno delle presidenziali costituisce un vero e proprio terremoto, senza precedenti nella V Repubblica. Il che la dice lunga sulla fragilità dei partiti politici francesi (un fattore permanente ma fortemente aggravatosi negli ultimi vent’anni) e sulla volatilità dell’elettorato: il Fronte nazionale – i cui parlamentari si contano sulle dita di una mano – si vantava di essere il primo partito in Francia e il movimento di Macron, alla vigilia dell’elezione, contava 250.000 sostenitori, ossia più di quelli di socialisti e repubblicani messi insieme. Cose mai viste: i partiti di governo sono stati esclusi dal secondo turno a vantaggio di due outsider. Ma un abisso sempre più profondo divide il Paese reale e il Paese legale e la prima vittima è la democrazia rappresentativa, contestata proprio per il fatto di non essere più tale. La crescita del populismo (di destra e di sinistra) ha cristallizzato la protesta, la frustrazione, la rabbia verso un sistema dove, tra astensione e voto per le opposizioni, le maggioranze al potere potevano pretendere di rappresentare al massimo un terzo degli elettori. Da qui il deficit di legittimità e soprattutto di capacità di attuare politiche con una base di consenso così risicata. La brutta prova della presidenza Hollande – sopravvissuta grazie alle stampelle fornitegli dalla Costituzione: un regime parlamentare classico sarebbe stato rapidamente rovesciato – ha esacerbato e completato i mutamenti del sistema politico francese iniziati a partire dalla seconda presidenza Chirac, nel 2002.
Durante la campagna per il secondo turno, De Gaulle e il gollismo hanno avuto una sorta di revival mediatico grazie a Dupont-Aignan (che al primo turno ha ottenuto il 4,7% dei consensi), presentatosi come l’unico detentore dei valori gollisti prima di allearsi con Marine Le Pen. D’improvviso, la candidata del Fronte nazionale, che già aveva rilanciato alcuni slogan di De Gaulle («l’élection présidentielle est la rencontre entre un homme et le peuple»), ha moltiplicato gli appelli ai gollisti, mentre Fillon si posizionava nel solco del generale, correndo però il rischio di perdere la faccia («Imaginez vous le Général mis en examen?», aveva detto per sottolineare la sua verginità giudiziaria, prima di essere lui stesso indagato).
In realtà, l’unico che avrebbe potuto rivendicare la patente di gollista era Macron, la cui «marche solitaire» al di sopra e al di là dei partiti risuona come un richiamo alla «marche» del generale del 1958. Le circostanze sono assai diverse, eppure le somiglianze ci sono e sono impressionanti: oggi come allora una società in crisi in cui una parte rilevante della popolazione è pronta per avventure forti; un nuovo nazionalismo (in contrapposizione all’Europa, così come allora all’Algeria); dei partiti stanchi e sfiniti.
Contrariamente al ’58, però, il salvatore è giovane, senza un passato ingombrante e dispone di una Costituzione che ho definito anni fa come «l’istituzionalizzazione della leadership». Come De Gaulle, Macron si è rifiutato di passare sotto le forche caudine di un partito e ha gettato una luce cruda sul fallimento del sistema delle primarie. Contrariamente al ’58, il sostegno al leader è più razionale e meno drammatico. Nel ’58 la destra si trovava provvisoriamente unita dietro il generale, ma la sua parte più estremista non avrebbe tardato a gettare le basi di un’opposizione tra le cui fila già si faceva notare un certo militare accusato di torture in Algeria: Jean-Marie Le Pen. Anche nel ’58 un’opposizione radicale ed eterogenea si mobilitava contro il leader carismatico, mentre l’antenato del Ps, la Sfio, si trovava in cattive acque. Un po’ come il Ps di oggi. Ci sarebbero voluti quasi vent’anni per ricostruirlo. A sessant’anni di distanza è Mélenchon che organizza l’opposizione più radicale e che potrebbe continuare le barricate secondo la vena protestataria e populista di colui che si è dato la missione di «uccidere» il Ps e di incarnare la «vera» sinistra.
La vittoria di Macron è una vera e propria rivoluzione, quasi inconcepibile anche solo un anno fa, quando il giovane leader ha lanciato il movimento «En Marche». Ridà vigore a una Costituzione contestata da alcuni, potrà contribuire attraverso il suo movimento a una rifondazione del sistema dei partiti, ma soprattutto può aprire una fase di riforme e di ottimismo di cui il Paese ha grande bisogno. Inoltre, dà un segnale chiaro alla ricostruzione dell’Europa, dal momento che il candidato Macron ha messo l’Europa al centro del suo programma e delle sue scelte, a differenza di quanto avevano fatto gli altri candidati, che avevano rifiutato la questione europea o avevano cercato di nasconderla sotto il tappeto.
Ma il cammino sarà difficile: il rifiuto del «sistema» da parte di circa la metà dei francesi, la reticenza dei gruppi di interesse (tutti i gruppi) ad accettare le riforme necessarie, la profonda divisione sociologica, geografica e politica del Paese sono veri ostacoli sulla strada del «progressista» Macron. Per il momento dunque la folle scommessa di questo giovane uomo irruente è vinta solo a metà.
Riproduzione riservata