L’Hotel House è un enorme condominio (480 appartamenti) abitato da più di 2.000 persone, il 90% immigrate da altri Paesi, che si innalza solitario nella parte meridionale della cittadina di Porto Recanati (11.959 abitanti), nel Sud delle Marche. Questa «città verticale» è stata creata alla fine degli anni Sessanta come luogo di villeggiatura per turisti, ispirandosi esplicitamente all’unité d'habitation di Le Corbusier; all’idea, cioè, di un edificio autosufficiente caratterizzato dal verticalismo e da linee rette ripetute in modo ossessivo. Una «casa» (house) con i servizi e i comfort di un albergo (hotel). Il «sogno», però, si interrompe a metà, e l’Hotel House diventa una sorta di cattedrale nel deserto, senza servizi, isolata e «orgogliosa», abitata d’estate da poche centinaia di turisti e, d’inverno, in gran parte vuota. Così, a partire dagli anni Novanta, è meta «naturale» per l’insediamento di centinaia di migranti attratti da un territorio vicino alla piena occupazione, grazie ai distretti industriali (della calzatura in primis), all’edilizia, alla pesca, all’agricoltura e al turismo.
Dall’«esterno», una volta trasformato in territorio di concentrazione di minoranze, l’Hotel House viene rappresentato come un luogo di marginalità e degrado, come un grave disturbo al «normale» metabolismo della città. Dall’esterno proviene, però, anche gran parte della domanda che concorre a rendere l’Hotel House un luogo di scambio di sostanze stupefacenti e che contribuisce fortemente a dare vita a questo circolo senza fine di stigmatizzazione e vittimizzazione.
L’Hotel House – in cui ho vissuto e fatto ricerca – non è però, in sé, né un territorio di disorganizzazione, né di degrado. È un enorme condominio, ideato per ceti medi, in gran parte abitato da soggetti in condizioni socio-economiche precarie che faticano a occuparsene e a curarlo. Ma è, anche, un territorio in cui gli immigrati possono farsi spazio, costruendo luoghi comunitari e identitari, chiese pentecostali e moschee, bar e supermercati, phone centers e macellerie. Un luogo, cioè, in cui ri-costruire risorse materiali e simboliche e, perciò, ricevere stima piuttosto che stigma. Di conseguenza, potenzialmente, più un trampolino per l’inclusione sociale che un muro.
È, inoltre, una zona di contatto tra persone che provengono da quaranta differenti Paesi, un luogo di multiculturalismo non astratto ma quotidiano, fatto, cioè, di corpi, rumori, sapori, odori. Non un «allegro carnevale» ma, piuttosto, un contesto in cui le differenze di nazionalità, di genere, di età, di condizioni socio-economiche si intrecciano quotidianamente producendo indifferenza e diffidenza, paura e curiosità, desiderio e disgusto. Si è dato vita, inoltre, a forme imprevedibili e a nuove appartenenze: risale a qualche anno fa la nascita del “Comitato Hotel House”, formato da residenti italiani, famiglie di immigrati e associazioni mobilitate contro lo stigma e l’abbandono del condominio, che ha portato all’istituzione di corsi di italiano e di una ludoteca. È una città-condominio (un mondominio?) in cui imparare quotidianamente a sopravvivere alla differenza.
Esistono, dunque, differenti Hotel House e tra essi si combatte quotidianamente una battaglia sull’uso di questo spazio e sul tipo di relazione da costruire con l’«esterno». La responsabilità dell’esito di questa battaglia è sempre proporzionale al potere ed è, perciò, decisivo soprattutto il ruolo giocato dalle istituzioni (locali) che hanno sempre abbandonato questo luogo e non hanno mai supportato le richieste di questo quinto della città, in gran parte senza voto, che finisce per essere, così, anche senza volto.
Tale situazione si ripete in tante altre città dove i luoghi in cui si concentrano minoranze sono soggetti, da un lato, all’invisibilità delle esigenze quotidiane degli abitanti, dall’altra a improvvise, quanto effimere, situazioni di panico morale legate all’iper-visibilità degli aspetti illegali e criminali.
Occorrerebbe, perciò, non parlare di «periferie» mobilitando la stessa retorica e gli stessi immaginari nonostante storie, geografie, demografie e contesti socio-politici differenti, e adottare, invece, approcci omeopatici, contestuali, maieutici, per riprendere Danilo Dolci, rivolti all’ascolto degli abitanti e alla scoperta del capitale spaziale e sociale di questi luoghi. Solo così può rivelarsi possibile conoscere queste emergenze urbane nel loro senso etimologico, cioè come qualcosa di nuovo che quotidianamente emerge dalle nostre città.
L’Autore ha pubblicato recentemente Come sopravvivere alla differenza. Etnografia dei confini sociali in uno spazio multiculturale, “Etnografia e ricerca qualitativa”, n. 1/2010, pp. 11-36.
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