Parlare di frammentazione a fronte delle liste che si presentano alle elezioni è ormai un eufemismo. Temiamo sia più esatto parlare di esplosione delle forme di aggregazione nella società civil-politica. Proviamo a guardare quanto accade e a ragionarci sopra.

Persino nelle elezioni per il Parlamento europeo, dove vige lo sbarramento del 4% per poter avere degli eletti, è evidente il fenomeno dell’appello alle piccole formazioni. Citiamo due casi emblematici. La lista promossa dal sindaco Cateno De Luca, dal nome piuttosto confuso “Sud chiama Nord”, non solo aggrega ben venti organizzazioni, ma ne mette i loghi nel suo simbolo – che, sia detto per puro senso estetico, somiglia più a puzzle mal riuscito che a un simbolo con lo scopo di muovere i sentimenti degli elettori. Ma qui siamo al folklore. Una lista che dovrebbe avere altro spessore come quella promossa da “Azione”, il partito di Carlo Calenda, pur avendo un logo più sobrio con la scritta “Siamo Europei”, nella sua presentazione mette in evidenza altri otto simboli di formazioni che si aggregano: qui più simboli di vecchi partiti che qualcuno cerca di rivitalizzare, piuttosto che formazioni civiche.

Nelle elezioni amministrative il panorama è ancor più confuso. Ogni candidato sindaco o presidente di Regione si presenta sostenuto certo da alcuni partiti individuabili come tali al di sopra dei localismi, ma subito deve aggiungere che lo fanno anche “liste civiche e ambientaliste”, il cui elenco in genere non è breve, ma il cui significato è quasi sempre piuttosto oscuro.

La proliferazione di “liste civiche e ambientaliste” dal significato quasi sempre piuttosto oscuro a sostegno di candidati locali non pare un esempio di vitalità della società civil-politica, ma un aspetto della crisi della forma-partito tradizionale

L’interpretazione del fenomeno come un esempio di vitalità della società civil-politica non convince. Al di là del fatto che molte di queste liste rappresentano raggruppamenti di scarsa consistenza, anche dove ci sono aggregazioni di consenso di un qualche peso si tratta di iniziative che servono o a raccogliere voti per un certo candidato, separandolo dalla sua eventuale appartenenza a un partito (il sentimento di diffidenza verso i partiti è ancora diffuso), o a promuovere le fortune politiche di alcuni personaggi, i quali non vogliono sottomettersi a discipline di partito.

Quest’ultimo è l’aspetto più rilevante, perché segnala un ulteriore aspetto della crisi della forma-partito tradizionale. Un tempo chi nella società civil-politica voleva entrare a far parte dei gruppi che decidono e incidono nella sfera pubblica si iscriveva a un partito verso cui si sentiva spinto dall’adesione a una certa visione ideologica e che pensava fosse il contesto adatto in cui esercitare i propri talenti e guadagnare così posizioni. Senza asserire drasticamente che da tempo non è più così, perché qualche spazio per la sopravvivenza delle tradizionali filiere di selezione qua e là esiste ancora, va constatato che si tratta di casi residuali con percorsi che quasi sempre sono più che lenti a meno che non intervengano colpi di fortuna. Come sono, per esempio, i sostegni non senza manipolazioni che vengono quando un certo circuito mediatico decide di promuove qualcuno/a a personaggio pubblico.

In genere coloro che si presentano alla testa di una aggregazione anche piccola, ma sufficiente per apportare (o almeno per far credere di apportare) utilità marginali all’affermazione dei partiti maggiori, sono poi in grado di farsi pagare questi appoggi partecipando ai vari livelli di spoil system che il sistema politico mette a disposizione. A seconda di quanto questi “pacchetti di voti” possono pesare e a seconda del ruolo che in essi hanno i vari personaggi guida si possono guadagnare posti nelle assemblee rappresentative, nei ruoli di governo (ce ne sono in maniera un po’ contorta anche per le opposizioni), nel multiforme sistema delle “partecipate”, giù giù fino a un qualche discreto posto di lavoro o a qualche prebenda.

Se la logica è per lo più questa, non può certo stupire la mobilità dei posizionamenti o, per dirla in modo un po’ più brutale, il trasformismo che connota il panorama di queste nuove classi politiche che rappresentano più o meno, se ci si consente una battuta disinvolta, le compagnie di ventura che vogliono sostituire gli eserciti regolari. La fortuna dei “capitani” e delle loro truppe è l’interesse preminente rispetto a quello della “causa” che di volta in volta dicono di voler servire.

Accade anche che la via per salire nella scala di potere dei grandi partiti passi per quel che si è potuto costruire mettendosi in luce al loro esterno col frazionismo delle piccole formazioni. Da questo punto di vista qualche indicazione potrebbe venire anche dalla storia dell’attuale segretaria del Pd Elly Schlein, che dopo una militanza alterna e anche con alcuni successi in quel partito ne era uscita per fondare una propria lista alle elezioni regionali del 2020 in Emilia-Romagna, dove aveva raccolto un successo modesto come lista (3,7%) ma notevole come preferenze personali, il che le ha consentito di divenire vice presidente della Giunta regionale guidata dal Pd. Senza rientrare in esso il 4 dicembre 2022 si candidava segretaria alle primarie del partito, chiedendone la tessera ed ottenendola il 14 dicembre, a poco più di due mesi dalle votazioni aperte a tutti in cui supererà il candidato vincitore della fase riservata ai soli iscritti, Stefano Bonaccini, che, guarda caso, aveva invece una storia classica di “militanza”.

C’è bisogno di ristabilire filiere (plurali e radicate in vari contesti) attraverso cui si possano formare, testare e poi far emergere le personalità adatte per dare al Paese una classe dirigente degna di questo nome

Come peraltro mostrano ora anche diverse candidature di punta proposte da quasi tutti i partiti a livello di elezioni sia europee, sia regionali o comunali, ci si fa strada in politica più ponendosi fuori dal perimetro e dalle prassi interne dei partiti che non esercitandosi nei tradizionali modelli della “militanza” col suo relativo “cursus honorum”.

Una riflessione su questo modo di rimodulare la vita delle istituzioni politiche e i percorsi di selezione delle classi dirigenti andrebbe fatta. Non c’è dubbio che la vecchia tipologia del professionismo politico abbia visto, accanto al permanere di buoni esempi di emersione di personalità apprezzabili, una vasta decadenza nella qualità delle donne e degli uomini che ricoprono molti ruoli importanti nella sfera pubblica. È altrettanto certo che le selezioni di classe dirigente che passano attraverso le frammentazioni di quelle che ho chiamato compagnie di ventura non hanno dato buoni risultati (salvo al solito ribadire che ci sono pure le eccezioni che però confermano la regola).

C’è bisogno di ristabilire filiere (plurali e radicate in vari contesti) attraverso cui si possano formare, testare e poi far emergere le personalità adatte per dare al Paese una classe dirigente degna di questo nome. Se la forma-partito non sarà più in grado di svolgere questo compito, come ha fatto con buoni risultati lungo gli ultimi due secoli (senza cercare perfezioni che non sono di questo mondo), sarà opportuno elaborare strumenti diversi. C’è in giro qualche nostalgia per ritorni al passato: affidiamo questo compito alle chiese, o anche alle istituzioni di alta formazione, o, perché no, alle confraternite degli intellettuali, dei “tecnici”, dei burocrati. Tutte prospettive che possono essere interessanti se lavorano in un contesto di pluralismo virtuoso, ma che diventano false se utilizzate per fornire fasulle etichette nobilitanti a chi invece è semplicemente espressione della lotta per mettere le mani sui poteri di organizzazione che spettano alla sfera politica.

La spinta all’esplosione del numero di aggregazioni politiche che si contendono la presenza nei gangli decisionali di quella sfera, in democrazia ovviamente legata al meccanismo della competizione per la rappresentanza, deve venire quantomeno depotenziata. Lo si potrà fare solo se la politica tornerà a essere il luogo del confronto e della sintesi fra progettualità di interesse generale, il che metterebbe fuori gioco le troppe compagnie di ventura e i loro capitani.