Nel corso degli ultimi venticinque anni, il panorama politico africano è profondamente cambiato. L’introduzione del metodo elettorale e del multipartitismo rappresentano il minimo comune denominatore di questa ondata di riforme. Elezioni e democrazia non sono sinonimi. Le elezioni sono uno strumento a cui un crescente numero di leader, democratici e non, ricorre per reclamare legittimità presso i propri cittadini e la comunità internazionale, salvo poi operare varie forme di manipolazione per restare al potere. Votare, d’altro canto, rappresenta un atto essenziale per la democrazia, che tuttavia richiede garanzie e libertà che vanno ben oltre le procedure per la selezione dei governi.

Le elezioni hanno finora avuto un ruolo piuttosto controverso nella democratizzazione del continente africano, catalizzando le dinamiche politiche in atto in questi Paesi e indirizzandole lungo traiettorie tra loro divergenti di progresso, stagnazione e persino regressione. In molti Paesi, l’introduzione delle elezioni multipartitiche ha rappresentato una conquista effimera. In circa un quinto dei Paesi sub-sahariani, per esempio, leader vecchi e nuovi hanno mantenuto il potere eludendo i limiti di mandato presidenziali, tramite la loro aperta violazione o il ricorso a vari mezzi ed espedienti formalmente legali, appellandosi a Corti costituzionali da essi controllate o a referendum popolari condotti in assenza di un ente garante indipendente. I casi più recenti sono Burundi, Ruanda e Congo-Brazzaville. Significativamente, si tratta di tre «ritardatari» dell’ondata africana di riforme democratiche, avendo questi Paesi introdotto le elezioni non più di una quindicina di anni fa. Un ritardo il più delle volte dovuto al protrarsi di conflitti etnici che evidentemente hanno ancora ripercussioni negative sul radicarsi della logica della competizione e dell’alternanza al potere.

Altrove lo sviluppo politico appare stagnante, elezione dopo elezione, anche se in Paesi come Mozambico e Tanzania le élite al potere si impegnano a rispettare almeno le più basilari regole del gioco, favorendo per esempio la successione all’esecutivo tra membri dello stesso partito, una volta raggiunto un limite di mandato. Non senza difficoltà, infine, la democrazia avanza in un terzo gruppo di Paesi. Sarebbe probabilmente inappropriato parlare di consolidamento anche per Paesi come Ghana, Benin e Sudafrica, solitamente individuati come i casi di democratizzazione di maggior successo. Le inversioni di rotta restano un rischio, come i colpi di Stato in Madagascar nel 2009 e Mali nel 2012 hanno dimostrato. Nella maggior parte di questi Paesi, tuttavia, le elezioni sono ormai routine, le élite politiche si fronteggiano nel rispetto delle regole e accettano la logica dell’alternanza, e quindi la possibilità di perdere, non solo nella teoria, ma anche nella pratica.

I trend divergenti di progresso, stagnazione e regressione democratica sembrano tutti aver trovato conferma nel 2016. Il destino politico di Paesi come Guinea equatoriale e Uganda resta in balia della volontà dei loro «uomini forti». La scontata riconferma al potere di Denis Sassou Nguesso in Congo-Brazzaville, in contravvenzione ai limiti di mandato, ha probabilmente favorito il rinvio delle elezioni al 2018 nel vicino Congo-Kinshasa, dove si fa sempre più concreta l’eventualità che anche Joseph Kabila correrà per un terzo mandato consecutivo. Né la democrazia in Sudafrica gode oggi di buona salute, con l’egemonia dell’African National Congress (Anc) che si protrae da ormai più di vent’anni. Nel corso del 2016, Jacob Zuma ha dovuto affrontare una mozione di impeachment e un voto di sfiducia. Richieste di dimissioni sono giunte anche da diversi membri influenti dell’Anc, che alle elezioni locali del mese di agosto ha subito un significativo ridimensionamento. Circa due mesi più tardi, infine, l’Etiopia ha dichiarato lo stato di emergenza per sedare la rivolta degli Oromo, rendendo così palese il paradossale deficit di legittimità di una coalizione di governo che alle elezioni del 2015 aveva guadagnato il 100% dei seggi parlamentari.

Guardando al lato positivo, il 2016 è iniziato con il ballottaggio che ha ufficialmente sancito la restaurazione del metodo elettorale in Repubblica Centrafricana, che per alcuni anni era stata guidata da un governo di transizione presieduto da Catherine Samba-Panza per porre fine alla crisi politica del 2013. Il Paese segue dunque le orme di Madagascar, Mali e Burkina-Faso, anch’essi recentemente tornati alle elezioni dopo interruzioni di varia durata. Buone notizie arrivano anche da Benin, Ghana, Zambia e alcune altre nazioni che mostrano un crescente attaccamento alla politica democratica. Il Ghana ha idealmente preso il comando di questo gruppo di testa nella corsa alla democrazia, con il terzo episodio di alternanza in quindici anni, il primo avvenuto in seguito alla sconfitta elettorale di un presidente in carica con un secondo mandato a disposizione.

Resta invece incerto il futuro del Gambia. Il presidente Yahya Jammeh ha perso le elezioni a dicembre, ma ha continuato a sedere sullo scranno presidenziale fino a sabato scorso, quando, in seguito alle pressioni delle Nazioni Unite, dell'Unione africana (Ua) e della Comunità dei Paesi dell'Africa occidentale (Ecowas), ha scelto la strada dell'esilio - non prima di aver svuotato le casse dello Stato, portando con sé, oltre a beni di lusso, un patrimonio di 11,4 milioni di dollari. Per il piccolo Paese africano, potrebbe trattarsi di un punto di svolta, specialmente se il vincitore delle elezioni Adama Barrow, che sta rientrando in patria, rispetterà la promessa di introdurre nella Costituzione i limiti di mandato.

Qualunque sarà l’esito, la crisi politica in Gambia peserà sui prossimi appuntamenti elettorali del continente. Il 2017 sarà infatti un altro anno decisivo per la democrazia in Africa. Paul Kagame probabilmente vincerà il terzo mandato consecutivo in Ruanda, dopo aver emendato i limiti costituzionali. Nel corso dell’anno, i cittadini di altri due «ritardatari» andranno alle urne. A meno di ripensamenti, dopo più di trentacinque anni al potere, il nome di Jose dos Santos non figurerà nella lista dei candidati delle prossime elezioni in Angola. Anche la Liberia sceglierà il suo prossimo presidente tra nuovi candidati, avendo Ellen Johnson Sirleaf già servito per due mandati consecutivi. Le probabilità di vittoria dell’opposizione aumentano significativamente quando il partito al potere partecipa alle elezioni con un nuovo candidato. Si tratterebbe del primo cambio di leadership pacifico per la Liberia, dopo diversi anni di guerra civile tra 1989 e 2003.

Discorso a parte, infine, merita il Kenya. Giunto ormai al sesto round elettorale, il Paese è tra i pochi a poter vantare più di un episodio di alternanza all’esecutivo. Il cosiddetto test del «doppio turn-over» – ossia quando si ha evidenza della disponibilità ad accettare la sconfitta da parte di almeno due delle principali forze politiche – è spesso considerato un passaggio cruciale nel processo di democratizzazione di un Paese. La conferma di Uhuru Kenyatta alla guida del Paese sembra il risultato più probabile, ma a contare di più, in questo caso, sarà l’integrità delle elezioni, dopo le pesanti irregolarità che hanno caratterizzato il voto del 2007-2008 e del 2013 - e che, nel primo caso, hanno provocato proteste sfociate in violenze etniche terribili, con oltre un migliaio di morti e circa 600.000 sfollati.

Indipendentemente dagli esiti delle future consultazioni, vale notare come la pratica elettorale vada sempre più radicandosi nella politica sub-sahariana. L’alternanza è l’eccezione, e le irregolarità la norma. Ma ciascun appuntamento elettorale apre una finestra di opportunità. Il primo episodio di turn-over del 2015 in Nigeria, per esempio, conferma che le elezioni possono produrre cambiamento politico, anche dopo anni di stagnazione. I cambiamenti di leadership non rappresentano il punto di arrivo del processo di democratizzazione di uno Stato, e certamente non sono la soluzione a tutti i suoi problemi economici, sociali e politici. Ma restano un segnale piuttosto inequivocabile di dinamismo nella vita politica di un Paese, e rappresentano un potenziale vettore di future riforme.

 

[Una versione alternativa di questo articolo è in uscita nel numero di gennaio della rivista «Africa e Affari»]